Antonia Arslan, 85 anni, è una scrittrice italiana di origine armena, premio Cultura Cattolica, docente di Letteratura all’Università di Padova, brillante penna di Avvenire e de La Stampa. Soprattutto è colei che ci ha fatto amare il popolo dell’Armenia attraverso La Masseria delle allodole, il romanzo sul genocidio armeno, da cui è stato tratto il bel film dei fratelli Taviani. Vita l’ha raggiunta a New York, dove ha un insegnamento all’Università, per commentare l’ennesima tragedia di un popolo cacciato dalla sua terra. 120 mila persone hanno dovuto lasciare in pochi giorni le loro abitazioni per essere trasferite in Armenia.
Già sul nome di quel territorio c’è una disputa: il mondo lo chiama Nagorno Karabakh, ma il nome armeno è Artsakh…
Antonia Arslan: La disputa linguistica aiuta subito a capire: per gli armeni quello è un territorio caro da secoli, parte dell’altopiano armeno. L’altro nome è quello dato dai russi. Conquistata l’indipendenza, gli armeni erano orgogliosi di chiamarlo Artsakh.
La sensazione è che si sia di nuovo creata una situazione in cui gli interessi dei grandi della terra sono tutti contro gli armeni, o sbaglio?
Purtroppo è una di quelle situazioni tragiche che si ripetono nella storia, ancora una volta per gli armeni. Ci sono certi aspetti che ricordano da vicino le circostanze della Prima guerra mondiale. Il mondo si indigna, parla, magari manda qualche soccorso, ma non riesce a intervenire realmente. Ma ai tempi del primo genocidio, c’era almeno una guerra mondiale in corso. Qui vedo un comportamento di autolesionismo.
Di chi?
Soprattutto da parte dell’Europa. Come cittadina europea sono sbalordita dal comportamento dei nostri leader politici. Mi sento in grande disagio se penso che Charles Michel (presidente del Consiglio europeo ndr) si è fatto prendere in giro da Ilham Aliyev, presidente dell’Azerbaigian. Aliyev aveva dato l’assicurazione che non avrebbe usato la forza, non avrebbe fatto un intervento militare e otto giorni dopo, proprio durante l’assemblea delle Nazioni Unite, hanno fatto un intervento militare.
Michel si è dichiarato deluso…
Quando l’ho letto, ho pensato: siamo a Monaco nel 1939. L’Europa è presa a schiaffi sulla questione degli armeni. Viene umiliata e non reagisce. Ursula von Der Leyen è andata nel luglio scorso in visita a Baku (leggi qui la notizia Ansa ndr) ad annunciare: “Oggi sono in Azerbaigian per firmare un nuovo accordo. Il nostro obiettivo è raddoppiare la fornitura di gas dall’Azerbaigian all’Ue in pochi anni”. Ma io domando: noi compriamo il gas, lo paghiamo secondo un contratto. Anche gli azeri hanno interesse a venderlo. Perché dobbiamo sentirci in debito? Al punto da non intervenire in occasione di questa operazione di pulizia etnica.
Lei sta dicendo che, riassumendo forse in modo un po’ schematico, gli azeri, alleati della Turchia, sono diventati partner fondamentali per l’Europa perché la guerra in Ucraina ha tolto la possibilità di comprare il gas dalla Russia. E la Turchia, a sua volta, che non è nella Ue ma nella Nato e tuttavia non partecipa alle sanzioni economiche contro Mosca, supporta questa svolta. Come del resto Israele, altro grande alleato dell’Azerbaigian…
Esatto. Da osservatrice avanzo poi il sospetto che noi europei compriamo il gas russo attraverso l’Azerbaigian, aggirando le sanzioni che abbiamo solennemente deciso contro Mosca. Fondamentalmente sarebbe una grande ipocrisia. Un’ipocrisia, ammantata di pseudo buone intenzioni, ma in fondo autolesionista. Mi chiedo: perché non c’è nessuna capacità diplomatica? Perché l’Europa, 450 milioni di persone, un grande mercato, una potenza reale si autocancella, si fa trattare a pesci in faccia. In realtà, in un quadro complesso, la Turchia sta perseguendo uno scopo ben preciso.
Qual è?
Basta guardare una carta geografica. La Turchia vuole un suo corridoio territoriale, tagliando in due l’Armenia: una connessione per collegare via terra il territorio turco con quello azero. I presidenti Erdogan e Aliyev lo hanno dichiarato apertamente. È il cosiddetto “Corridoio Zangezur”. La Turchia metterebbe così un’ipoteca sulle repubbliche ex sovietiche dell’Asia centrale, che sono di cultura e tradizione islamica. Questa è l’ambizione dell’imperialismo neo-ottomano.
Turchia, Israele ed Europa hanno fornito armi all’Azerbaigian…
Sì, Baku ha ricevuto armi molto sofisticate, missili e droni di ultima generazione. Anche l’Italia ha venduto armi, aggirando la legge che prevede non si vendano armi a una nazione in guerra. Del resto, cioè dell’Europa e di Israele ho già detto.
In tutto questo, qual è stato il ruolo della Russia?
Nell’imperialismo russo, già in quello zarista e poi in quello sovietico, il Caucaso era considerato terra di proprietà. Le tre repubbliche transcaucasiche, Georgia, Armenia e Azerbaigian, furono create apposta nel 1920 dai sovietici. Fra l’altro prima di allora, l’Azerbaigian non esisteva, mentre Georgia e Armenia hanno una lunga storia dietro di sé. A differenza della Georgia, l’Armenia è sempre stata molto fedele a Mosca e Mosca l’ha sempre difesa. Ancora oggi ci sono soldati russi a difendere la frontiera con la Turchia. Dopo la guerra del 2020, sono stati i russi ad imporre e garantire il cessate-il-fuoco. Ora però hanno lasciato che l’Azerbaigian cacciasse gli armeni dall’Artsakh.
Perché?
L’ordine di non intervenire è arrivato da Mosca. Con la guerra in Ucraina, il regime di Putin si è molto indebolito. In più, se l’ipotesi che il gas azero per l’Europa sia in realtà un po’ russo non è campata in aria, beh ci sarebbe un motivo in più per lasciare mano libera a Baku e alla potente Ankara, che la supporta.
Lei ha scritto sull’Avvenire che l’odio antiarmeno si mischia con l’odio anticristiano, vuole spiegare cosa significa?
C’è un odio antiarmeno che è stato coltivato da vent’anni. E lì ci sono anche responsabilità dei governi di Erevan. Questo stato di guerra latente è continuato per decenni. Un odio che è stato coltivato fin dai ragazzini. Proprio come ha fatto Hitler contro gli ebrei. Questo sentimento diventa odio anche anticristiano. Le due cose si mescolano come è avvenuto per il genocidio del 1915. La leva religiosa è stata usata dai potenti e dai militari per aizzare il popolo. Gli organizzatori di questa tragedia non sono mica uomini religiosi. Usano la fede religiosa per muovere le masse. È proprio un utilizzo diabolico: la religione usata a fin di Stato, per il potere imperiale. Per la guerra.
Che speranza ha l’Armenia? La Francia si è mossa, promettendo supporto e aiuti anche militari…
La speranza è che gli Stati Uniti finalmente si sveglino. Ci sono rappresentanti al Congresso e senatori Usa che hanno fatto una proposta di legge. Una proposta bipartisan, che speriamo accenda l’attenzione degli americani. Sulla sopravvivenza dei centomila profughi non ho grandi preoccupazioni perché l’Armenia è poco popolata, ha solo due milioni e mezzo di abitanti, la maggioranza degli esuli sono contadini. Hanno un mestiere, condividono lingua e cultura. Dalla cosiddetta diaspora e da altri Paesi arriveranno aiuti umanitari. Mi angoscia il futuro dell’Armenia.
Che cosa si augura?
L’indignazione per quello che è accaduto, per questa ennesima persecuzione etnica, dovrebbe far ottenere all’Armenia uno status neutrale, come quello della Svizzera. Rendiamo sacri e intangibili i suoi confini. Potrebbe essere il risarcimento dopo tante ingiustizie.
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