È uno dei ministri degli Esteri più influenti del continente africano, la prima nella storia del Kenya. E sul dossier migrazioni sa il fatto suo. Di origine somalo-keniota, Amina Mohamed, ha saputo sfruttare la lunga e ricca carriera internazionale che l’ha vista approdare alla Banca Mondiale e al Programma delle Nazioni Unite per l’Ambiente (UNEP) per imporre il suo marchio a capo della diplomazia keniota. E dire in questa intervista rilasciata ad Afronline.org quello che pensa delle sfide migratorie che colpiscono l’Africa e delle responsabilità che incombono all’Europa, di cui saluta positivamente il Piano di investimenti esterni dell’UE per il continente africano e i Paesi del Vicinato lanciato poche settimane fa dalla Commissione europea.
Di sicuro può contare su un alleato che considera prezioso: Matteo Renzi, “che ringraziamo per porre l’Africa e le migrazioni al cuore della politica estera europea”. Il nostro incontro è avvenuto nel cuore del Palazzo di Vetro delle Nazioni Unite, all’indomani dell’adozione della “Dichiarazione di New York” da parte dei Capi di Stato e di governo al termine del Summit mondiale sui migranti e i rifugiati.
Da mesi Matteo Renzi chiede all’UE di cambiare radicalmente la sua strategia sulle migrazioni per fare degli investimenti in Africa una grande priorità della politica estera europea. Qual’è il suo sguardo?
Ringraziamo il Premier italiano per tutto quello che ha detto a nostro favore. Il lavoro che ha fatto e che continua a svolgere per porre l’Africa e le migrazioni al cuore della politica estera europea è molto apprezzato. Le relazioni bilaterali tra Kenya e Italia sono eccellenti, special modo tra il nostro Presidente e il il Presidente del Consiglio, anche perché il vostro governo ci è stato affianco nei momenti più difficili. Penso allo speech sui giovani e il terrorismo che Renzi ha rivolto l’anno scorso agli studenti dell’Università di Nairobi, oppure alla visita ufficiale improvvisa del ministro degli Esteri, Paolo Gentiloni, subito dopo l’attacco terroristico all’Università di Garissa. Sono gesti e discorsi che non dimentichiamo.
Ringraziamo il Premier italiano per tutto quello che ha detto a nostro favore. Il lavoro che ha fatto e che continua a svolgere per porre l’Africa e le migrazioni al cuore della politica estera europea è molto apprezzato.
In seguito alle pressioni dell’Italia, la Commissione europea ha annunciato in settembre un nuovo piano di investimenti esterni per l’Africa e i Paesi del Vicinato per frenare i flussi migratori. Siamo a una svolta?
Di sicuro è un ottimo piano, special modo per consentire alle piccole e medie imprese africane di potersi rafforzare ed esportare i loro prodotti rispettando gli standard di qualità internazionali. Gli investimenti sono la vera risposta non tanto al problema dei rifugiati che fuggono dalle guerre e dalle persecuzioni, ma ai migranti che lasciano i loro paesi per causa della povertà e della mancanza di opportunità. Il lavoro e la dignità sono i due concetti chiave che stanno alla radice dei flussi migratori. Il piano, almeno sulla carta, risponde a questa sfida. Inoltre, renderà gli accordi di partenariato economici con l’UE molto più sostenibili, consentendoci di esportare i nostri prodotti sui mercati europei.
Che sguardo ha sulle politiche migratorie dell’UE nei confronti dell’Africa?
Se i paesi europei ottemperano alle legislazioni internazionali che hanno sottoscritto, non c’è problema, se invece non lo fanno allora il peso dei profughi e dei migranti presenti sul continente europeo è un loro problema, di sicuro non il nostro.
Se i paesi europei ottemperano alle legislazioni internazionali che hanno sottoscritto, non c’è problema, se invece non lo fanno allora il peso dei profughi e dei migranti presenti sul continente europeo è un loro problema, di sicuro non il nostro.
Lei ha annunciato in settembre il rimpatrio di 150.000 rifugiati somali nella loro madrepatria entro la fine dell’anno, di cui 100.000 sarebbero volontari. In che condizioni avvengono i rimpatrii?
Non si tratta di una decisione unilaterale del Kenya, le procedure di rimpatrii volontari si svolgono nel quadro di un accordo tripartito firmato tre anni fa tra il nostro paese, la Somalia e l’Alto Commissariato delle Nazioni Unite per i rifugiati (ACNUR). Quindi quando leggo sulla stampa africana e internazionale che il Kenya espelle illegalmente rifugiati somali, è un messaggio sbagliato che non possiamo accettare. Il governo keniota non fa altro che rispettare gli impegni sottoscritti nell’accordo tripartito. Del resto questi rimpatrii non sono una novità, sono già stati effettuati in passato, non capisco perché questo annuncio sta generando così tante polemiche. Vorrei ricordare che dopo la guerra nell’ex Jugoslavia, molti rifugiati sparsi nei Balcani e nel continente europeo sono stati coinvolti in programmi di rimpatrio volontario molto simili a quello che abbiamo siglato con la Somalia e l’ACNUR. Questi programmi coinvolgevano i paesi di origine dei rifugiati, quelli di accoglienza e la stessa ACNUR. Lo so perché in quel periodo stavo in Europa. Noi stessi in Africa, e in particolar modo in Kenya, abbiamo adottato in passato questo tipo di programmi firmando accordi tripartiti aiutando i rifugiati a tornare a casa loro con il sostegno dell’ACNUR. Tutti in modo volontario. Oggi abbiamo registrato 100.000 che hanno espresso il desiderio di tornare in Somalia. E come in passato, li aiuteremo nel miglio modo possibile.
Questa operazione avrà un sostegno di circa 100 milioni di euro da parte dell’Unione Europea. In che modo questi fondi vengono utilizzati?
I fondi vengono principalmente destinati all’ACNUR, poi alle autorità keniote per aiutarle a facilitare i rimpatrii e alla Somalia che è incaricata di accoglierli in modo adeguato.
Quali le garanzie apportate dal governo somalo nell’accogliere profughi scappati dalla guerra civile?
E’ tutto scritto nell’accordo tripartito, che prevede un’assistenza umanitaria di breve termine ai rimpatriati, mentre la fase di medio-lungo termine rientra nel Somalia Compact, un programma che mira alla sicurezza dei rifugiati rimpatriati, alla loro reintegrazione nel tessuto socio-economico somalo e ad un sostegno alle loro comunità di origine.
La chiusura del campo profughi di Dabaab, uno dei più grandi al mondo, è stata annunciata a più riprese. Lei conferma che verrà chiuso entro fine anno?
Lo confermo. La chiusura verrà effettuata con il sostegno dell’ACNUR e della Comunità internazionale, ivi compresi l’Unione Europea, tra cui i paesi scandinavi, e gli Stati Uniti.
Che gli altri inizino ad accogliere e ad integrare sul loro territorio lo stesso numero di rifugiati che abbiamo accolto e integrato, solo allora potranno suggerirci cosa fare o non fare.
Quindi l’Unione Europea sostiene le autorità keniote nella loro volontà di chiudere Dadaab per motivi di sicurezza legati, secondo il suo governo, alla minaccia terroristica che questo campo rappresenta per la nazione?
Non lo porrei in questi termini. Dadaab verrà chiuso per molte ragioni, e non solo per motivi di sicurezza. Questo campo è stato costruito nel 1992, ovvero tantissimi anni fa, e le condizioni in cui vivono i profughi non sono più sostenibili. E’ giunto il tempo di ridare dignità ai rifugiati somali che per troppi anni hanno vissuto in condizioni squallide, sotto i nostri occhi e quelli della Comunità internazionale. Se queste condizioni fossero state migliori, oggi le avrei rilasciata un’intervista ben diversa.
Ma molti di loro sono nati e cresciuti in questo campo, quindi in Kenya. Com’è possibile immaginare una loro reintegrazione in Somalia, una terra che non conoscono?
Sono pienamente d’accordo con lei. Ma vede, c’è un principio da rispettare: la condivisione del fardello. Per tanti anni il Kenya ha integrato tantissimi rifugiati, oggi vogliamo che la Comunità internazionale faccia la stessa cosa. Che gli altri inizino ad accogliere e ad integrare sul loro territorio lo stesso numero di rifugiati che abbiamo accolto e integrato, solo allora potranno suggerirci cosa fare o non fare. Che un paese europeo ci venga a dire: “Come voi abbiamo accolto 300.000 profughi, discutiamo i modi con cui ricollocare gli altri”.
Verrà chiuso anche il campo di Kakuma che ospita 158mila profughi, principalmente sud-sudanesi?
Il nostro governo intende rispettare gli impegni presi con la Comunità internazionale per accogliere profughi che necessitano una protezione quando entrano in territorio keniota. Quindi il campo di Kakuma non verrà chiuso, anche perché in Sud-Sudan è in corso una crisi umanitaria molto grave.
Foto di copertina: Getty Images/F. Coffrini
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