Nelle comunità educative, fra i minori presenti con più di sei anni, quelli adottati sono il 4%. Mettendo insieme questo dato con quello relativo alla percentuale di bambini adottati sulla popolazione di riferimento, si può dire che un ragazzo adottato ha circa il triplo delle probabilità di passare un periodo in comunità, rispetto ad un qualsiasi altro ragazzo nato e cresciuto in Italia.
È questa la fotografia – parziale ma significativa, nonché inedita e documentata – della situazione nelle province di Milano e di Monza-Brianza, territori che tradizionalmente hanno i più alti numeri di adozioni di tutta Italia. L'analisi statistico-sociologica, che ha una dimensione quantitativa e una qualitativa, è stata realizzata dal Centro studi ALSPES, con l’Università Cattolica e AFN-Azione per famiglie nuove, andando a mappare tutte le quasi 200 strutture residenziali per minori delle due province. La ricerca è parte integrante di un progetto biennale di sostegno alle famiglie con minori con un vissuto di frammentazione all’origine delle loro storie personali e familiari, denominato "INTRECCI". I partner del progetto – Arcobaleno Onlus, un’associazione per l’accoglienza e la formazione di stranieri e di minori stranieri non accompagnati; le cooperative sociali Elohi ed Eos; l’associazione Genitori si diventa per i minori adottivi e le loro famiglie, costituiti in rete – hanno messo in campo alcuni servizi per le famiglie (consulenza psicologica, psicoterapia e mediazione familiare) più una serie di azioni integrate nella prospettiva di prendersi cura con strumenti diversi e di diversa “intensità” tanto dell’intero nucleo familiare quanto dei suoi singoli componenti, per ricostituire i legami di appartenenza. Una villetta di Nova Milanese, messa a disposizione da uno dei partner, ha permesso di accogliere in un ambiente domestico le varie proposte: un gruppo di sostegno alla genitorialità per i genitori adottivi, laboratorio di arteterapia, attività sportive, laboratori di cucina guidati dai cuochi di tutto il mondo dell’associazione “Cuochi a colori”… mentre “in esterno” sono state fatte alcune visite guidate sul territorio, condotte dall’Associazione “I Gatti spiazzati”.
Abbiamo voluto evidenziare, dando una informazione statistica, un dato che viene sottovalutato. Una probabilità così alta ci dà l’idea che non sia stato fatto prima tutto ciò che era possibile. Significa sottolineare con forza la necessità di fare molta più informazione e formazione di tutti gli operatori che possono incontrare una famiglia adottiva
Cristina Pansera e Liuba Bardi
Torniamo dunque lì, al 4% di minori adottati e poi collocati in comunità: segno drammatico di un’adozione che non ha funzionato. Come leggere quei numeri? «Innanzitutto abbiamo voluto evidenziare, dando una informazione statistica, un dato che viene sottovalutato. Una probabilità così alta ci dà molto l’idea che non sia stato fatto prima tutto ciò che era possibile. Significa sottolineare con forza la necessità di fare molta più informazione e formazione di tutti gli operatori che possono incontrare una famiglia adottiva», affermano Cristina Pansera, responsabile del Centro di mediazione famigliare di Eos e Liuba Bardi, responsabile della sede di Vimercate di AFN. Le problematiche sono sorte con l’ingresso dei figli nella fase dell’adolescenza, degenerate poi in fughe da casa, abuso di droghe e alcool, furti, aggressioni. Ma una volta che i ragazzi arrivano in comunità, gli educatori talvolta nemmeno sanno che sono stati adottati: «anche questo è un problema, perché le comunità potrebbero dotarsi di professionisti con competenze specifiche. L'adozione infatti fa la differenza per alcune scelte che si fanno, il progetto educativo su un ragazzo adottivo deve essere specifico», riflette Pansera.
E ancora, «è un dato ci fa dire che serve fare molta formazione specifica, in modo da garantire una professionalità elevata a tutti gli attori che si muovono attorno alla famiglia adottiva, per intervenire prima e non arrivare in maniera drammatica al collocamento in comunità quando questo è necessario, ma avendo accompagnato tutta la famiglia. Spesso invece la famiglia è abbandonata a se stessa e si trova sola a cercare di risolvere i suoi problemi, arrivando a chiedere aiuto solo quando c’è una situazione conflittuale e critica. Spesso manca anche la vicinanza con una rete amicale di altre famiglie adottive e non, molto preziosa. Questo dato, in sostanza, dice la necessità di una rete all life long per le famiglie adottive, che in questo momento invece non hanno una comunità che le sostenga», proseguono le due esperte. Qualcosa che vada ben al di là del classico, canonico e obbligatorio post adozione.
Per le famiglie chiedere aiuto non è facile: «sanno a chi rivolgersi, il problema non è di conoscenza ma più profondo. Le famiglie adottive sono state dichiarate idonee, quindi capaci e competenti di accogliere un bambino con tutta la sua storia adottiva. Nel momento della crisi, è difficile chiedere aiuto alle stesse istituzioni che le hanno valutate come competenti. Per questi abbiamo inserito nel progetto la mediazione familiare», sottolinea Pansera: «un istituto che loro non incontrano nella preparazione all’adozione o nel post adozione, è una cosa nuova, con soggetti nuovi e operatori nuovi, è nuovo anche nel metodo, non ci sono valutazioni e relazioni, è qualcosa di riservato… Poi certo, se si entra lì, ci si apre a vari tipi di servizi perché si riattivano le risorse». In particolare dal 2008, EOS lavora con la mediazione familiare come strumento per la mediazione del conflitto: «la mediazione non lavora sul passato, che è qualcosa su cui le famiglie hanno lavorato tantissimo per avere il decreto di idoneità, per dare mandato all’ente, per accogliere il bambino… la mediazione è uno sguardo sul presente e sul futuro. È guardare in faccia il conflitto, prendere decisioni concrete e pratiche», dice Pansera.
Posto che dire che il 4% delle adozioni fallisce significa contestualmente dire – al contrario – che il 96% ha successo, perché un’adozione fallisce? Quali sono i fattori di crisi? «Spesso il preadolescente prende le distanze, come è naturale, da una famiglia con cui però non ha ancora maturato e consolidato il legame. A tutti questi ragazzi con doppia origine è chiesta la capacità di mantenere un equilibrio tra due mondi e a volte le origini o le relazioni che hanno caratterizzato la prima parte della loro vita sono molto dolorose. Tuttavia nessuno di loro è nato quando è stato adottato, c’è sempre un prima. E questi passaggi non possono essere dati per “fatti” una volta per sempre, sono da rifare ad ogni tappa della crescita: ometterli favorisce una crisi identitaria che diventa poi crisi con la famiglia. Se parliamo di adozione internazionale, poi, si apre tema del razzismo che è diventato un problema significativo in particolare negli ultimi due anni», spiegano Pansera e Bardi.
Spesso la famiglia è abbandonata a se stessa e si trova sola a cercare di risolvere i suoi problemi, arrivando a chiedere aiuto solo quando c’è una situazione conflittuale e critica. Spesso manca anche la vicinanza con una rete amicale di altre famiglie adottive e non, molto preziosa. Questo dato, in sostanza, dice la necessità di una rete all life long per le famiglie adottive, che in questo momento invece non hanno una comunità che le sostenga
Un elemento di protezione invece è la fratrìa: «il legame tra fratelli infatti è la testimonianza vivente che un legame familiare è possibile e questa esperienza positiva protegge anche il legame con i genitori». Ma anche una famiglia allargata che condivide il progetto genitoriale, cominciando dai nonni, dagli amici, dalle altre famiglie adottive. E anche la scuola, «abbiamo collaborato con l’ufficio scolastico provinciale di Monza e Brianza per la formazione dei docenti referente per l’adozione e abbiamo visto che alcune persone hanno fatto davvero la differenza: dove c’è una scuola sensibile e competente cambia moltissimo», aggiunge Pansera.
Il progetto "INTRECCI" ha creato eventi di socializzazione in cui le famiglie potessero ritrovarsi, genitori e figli insieme. Hanno partecipato soprattutto famiglie con figli alla scuola elementare e media, in ottica preventiva, mentre chi ha capito di aver bisogno di sostegno psicologico o di mediazione famigliare ha avuto direttamente accesso ai servizi. Il laboratorio di cucina interetnica è stato potentissimo: «poter cucinare per i genitori quei piatti che hanno il gusto della propria terra d’origine ha avuto un impatto emotivo forte, perché il cibo è costitutivo del legame. L’arte per noi è sempre uno strumento privilegiato, le nostre arteterapiste sono anche mediatrici di conflitti e usano l’arte per lavorare sulle emozioni, il prodotto artistico fa emergere cose che diversamente non emergerebbero. Lo stesso con le camminate nei boschi… Emergono più cose lì che non in un incontro al chiuso di una stanza».
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