A tu per tu

Aldo Busi: «La mercificazione del corpo è ovunque»

di Marco Dotti

Una grande intervista allo scrittore bresciano lancia una riflessione, libera e drammatica, a partire dal caso delle donne costrette ad affittare il loro utero. «Tra le sentinelle reazionarie in piedi e gli intellettuali libertari seduti non c’è alcuna differenza. Fingono di leggere le prime, fingono di avere letto i secondi. E alla fine di tutto questo chiacchiericcio sul corpo altrui e mai sul proprio, che cosa resta? Non resta niente»

«Ho capito che tra le sentinelle reazionarie in piedi e gli intellettuali libertari seduti non c’è alcuna differenza. Fingono di leggere le prime — magari leggessero Pia de Tolomei! — fingono di avere letto i secondi. E alla fine di tutta questa finzione, di tutto questo chiacchiericcio sul corpo altrui e mai sul proprio, che cosa resta? Non resta niente, si elidono a vicenda. È zero a zero per la crescita civile del Paese. Per non parlare, poi, dei gay e delle lesbiche che nemmeno hanno mai letto Aldo Busi. Un etero che lo abbia letto non sarà mai tanto omofobo come costoro». A parlare è proprio lui, Aldo Busi, scrittore, nato a Montichiari, provincia di Brescia, nel 1948. Un esordio folgorante con “Seminario sulla gioventù” (Adelphi), nel 1984, e poi un crescendo tra romanzi, reportage, traduzioni, lezioni e canzoni a partire da “Vita standard di un venditore provvisorio di collant”, uscito l’anno dopo con Mondadori, fino all’«autobiografia non autorizzata», “Vacche amiche”, apparsa nel marzo scorso per i tipi di Marsilio. A Montichiari, si legge nella stringatissima quarta di copertina che accompagna i suoi ultimi libri, Busi «mantiene la residenza fiscale». Nient’altro. Proprio a Montichiari lo abbiamo incontrato, per una conversazione su corpo e scrittura. Le risposte che seguono sono di suo pugno, a conferma che non c’è letteratura senza un corpo a corpo, anche con chi ascolta.

Partirei da una questione, il corpo. Non si fa che parlarne, eppure mai come oggi il corpo è triste, frustrato…
Il corpo… Come dev’essere stato bello avere un corpo, nell’Ottocento. Come dev’essere stato bello darlo in pasto a chi in pasto lo dava, ai tempi in cui fiorivano i canti di Lautréamont e i “reati immaginari” quali l’eresia, la sodomia, la stregoneria cassati dal Codice Napoleonico non erano ritornati di nuovo in auge quali spauracchio dello stato di polizia organizzato dall’oligarchia politico-religiosa come accade nella Russia del demente aguzzino Putin! Tutto si articolava nel corpo, come in un grido. Adesso nel corpo rischia di articolarsi o, meglio, disarticolarsi non il grido, che non c’è più, ma il belare degli infanti a vita. Scrive Balzac che un uomo, quando si spoglia, togliendosi abiti, pantaloni, scarpe e ghette, è un uomo che ha perduto ogni potere sociale, perciò la nudità maschile genera imbarazzo a lui per primo se fosse esposta. Un uomo del genere, nudo nella sua intimità non condivisa, non è soltanto un corpo, ma un corpo che vuole tornare bambino, tale e tanto è il sollievo per essersi tolto quella corazza d’apparenza sociale. Quest’uomo, oggi, è regredito all’infanzia oltre ogni immaginazione: non legge, non riflette, guarda solo qualcosa che catturerà la sua attenzione per pochi secondi. È mercificato oltre necessità, per paura di valere di meno mette il cartellino del prezzo su tutto. La mercificazione del corpo la vediamo ovunque, nella scienza come nella pseudoscienza che l’aspetta al varco una volta smentita o superata, nella religione come nel religiosismo moral-sessual- sentimentale che nei secoli dei secoli è piccolo borghese e fedele alla propaganda che lo precede e che precede ogni dio catodico e laico. C’è un paravento scientifico ovvero scientista e superstizioso dietro il quale si nascondono le cose dell’autoritarismo finanziario funzionale allo stato di fatto e di stallo, e il corpo è tra queste, e questo stato di fatto e di stallo per funzionare ha bisogno che il corpo e la sua sessualità continuino a essere infelici, a crogiolarsi nel recinto delle cosiddette trasgressioni- regressioni licitate affinché l’essere umano resti nell’alveo della perversione, carissima da soddisfare senza peraltro soddisfarsi, e non pervenga mai alla versione gratuita, anticommerciale, rivoluzionaria, spauracchio di ogni dispotismo politico e assolutismo eligioso.

Eppure questo belare — il chiacchiericcio — oggi va per la maggiore.
Non solo da oggi, da sempre, anche ai tempi del Principe e del Cortigiano. Proprio per questo il “corpo” e l’infinito dibattere che se ne fa tracimano in melassa. Ma è la melassa degli altri, dei corpi dannati nei luoghi comuni sull’anima e la salvezza, mai un po’ della mia dolcezza pagana,socialmente orizzontale e mai verticistica, democratica sempre, questo aggiunge un problema al problema. Anche quando si parla di libertà, relativamente al corpo, bisogna ricordarsi che la libertà non è un dato, ma un processo. Va guadagnata giorno dopo giorno, secondo la bisogna, niente di troppo idealistico. Per la maggior parte della gente non è una priorità, perché invece che con la libertà petto in fuori raggira gli ostacoli del potere informante con la furbizia del libertinaggio strisciante e della doppia morale frutto della doppia vita con partita doppia, l’ufficiale e la reale. La libertà è la volontà suprema dei pochi che si vogliono dare il coraggio che non hanno a prescindere dalla quantità richiesta per sopravvivere di volta in volta e di ruolo in ruolo.

Intende dire con un lavoro costante su di sé?
Dico che non si può contare su nessuno sviluppo tecnologico – perché è questo, in fondo, che si nasconde dietro il paravento delle chiacchiere sulla libertà e sul corpo – senza prima essere arrivati a un vero progresso civile e di vincolante etica collettiva, per non dire universale. Lo sfruttamento del lavoro forzato e dell’arruolamento militare e dello spaccio e della prostituzione addirittura dei bambini, non solo dei minori, dovrebbe essere considerato un crimine contro l’umanità non solo in India o nell’ex Congo ma ai raccordi anulari di troppe città italiane. Oggi è tutta una noia con discorsi sulla liberazione di qui e sulla liberazione di là e si fa strame di centosessanta milioni di piccoli umani considerati alla stregua di vittime necessarie, di casualties conteggiate nella percentuale messa in conto di una guerra dovuta da una parte a beneficio della pace di un’altra, la nostra. Necessarie non certo a me e al mio stile di vita nemmeno indirettamente. Io ho naso e orrore per ogni goccia di sangue umano fatto versare scientemente.

La domanda sulla tecnologia si riduce a un ci terrà dentro o ci taglierà fuori dai suoi benefici? Lo abbiamo visto, in Italia, sulla questione della maternità surrogata…
Parto da un presupposto: non vedo, da parte mia, la necessità di perpetuare l’umanità. Anche se si estinguesse, che problema ci sarebbe? Prenderanno il sopravvento le formiche, i topi, le cicale. Queste creature, chiamate oggi “insetti” e “roditori” e forse non a lungo, faranno altre piramidi, scriveranno in altre lingue, avranno un loro sistema mentale e psichico e di linguaggio, addirittura trasmissibile, e alla fine una specie prevarrà sulle altre e avremo un nuovo “umano” del tutto simile a quello contemporaneo, una bestia immonda sublimatasi senza ragione e per partito preso. Certo, per scongiurare la fine dell’umano attuale, qualcuno potrebbe avanzare l’ipotesi di ricorrere alla tecnologia, ma non mi pare sia il nostro caso, dato il sovrappopolamento mondiale, che neppure dalla recente enciclica di Bergoglio viene considerato un problema, nemmeno fosse un vezzo dei soliti criticoni apocalittici per niente. Non pensavo, invecchiando, di diventare tanto umanofobo. Non sono né misogino, né omofobo, né eterofobo. Sono però umanofobo, nel senso che ci sono dei comportamenti che non mi vanno, né negli uni, né negli altri, né in quegli altri umani-troppo-umani ancora. Non c’è etica civile concorde sulle nascite per rapporto all’ambiente e alle sue possibilità nutrizionali ed educazionali, questo è il problema. Sia la cultura sessuale e genitale cattolica che quella mussulmana non ci arrivano, loro continuano a dire “andate e moltiplicatevi”, sottintendendo “e portateci quel pane e companatico a noi santi e martiri che non possiamo né spostarci né procreare”. Allora, sul tema della cosiddetta maternità surrogata, è chiaro che non entra in gioco una questione di diritti, ma di mercificazione dei corpi delle donne che riduce questioni politiche a questioni private, intimiste, di bambini viziati che i giocattoli li devono avere
tutti se no non si sentono dei mostri normali.

Come possono non capirlo coloro che si stanno battendo per legalizzarla?
Forse lo capiscono, ma si credono dei salvati in un mondo di sommersi. A me un uomo che si stringe al petto villoso un neonato come se fosse appena uscito dal suo di grembo di puerpero fa prima sgomento e poi mi fa venire una ridarella irrefrenabile. Credo invece che bisognerebbe lottare per favorire l’adozione anche alle persone singole, punto. Non ti concedono il bambino in adozione o in affido secondo la tua disponibilità? Prima di metterne al mondo surrettiziamente degli altri tra coppie di uomini e l’utero in affitto di una qualche fuori di testa o di sé o schiavizzata a restare incinta da una gang specializzata nella tratta di esseri umani ab ovo e no, bisogna lottare per avere accesso a queste adozioni. Le scale non si fanno partendo dall’ultimo piolo, è una discesa fintissima e trucida, perché non si dà discesa senza una salita. Io non vorrei mai essere stato generato da un ovocita estraneo alla potenziale fertilità di un uomo e di una donna senza terzi incomodi intorno, mentre me ne importerebbe una sega di essere un orfanello adottato da uno o due gay o da una affettuosa troia in pensione o da una coppietta di sposini della Barbagia o da tre lesbiche spiritose o da un’intera cascina di contadini di una volta, basta che da tutti riceva lo stesso tipo di affetto importante, ovvero affetto intellettuale e civile e pragmatico, che va ben oltre la ristrettezza, spesso plagiante e claustrofobica, dell’affetto del cosiddetto cuore. Per la mia tutela e integrità psicofisica, di un cuore amoroso e possessivo non mi fido, di una mente amorosa e vigilante, anche su se stessa, sì.

Sul tema della maternità surrogata, non entra in gioco una questione di diritti, ma di mercificazione dei corpi delle donne

In Vacche amiche lei invita a una nuova iconoclastia e a un’etica della lettura, contro la «subcultura dell’immagine». Questo riguarda anche i corpi…
Io faccio un discorso che prende tutte le forme dell’emarginazione e della castrazione socio-politico-economica. Ma questa emarginazione riguarda a maggior ragione quella pratica che potremmo chiamare di colonizzazione delle menti. Quindi, non solo i corpi sono stati mercificati, ma le menti sono state colonizzate. Parlo di extracomunitari, ma potrei dire anche “clandestini”… nemmeno significasse “destini alla deriva perché non appartenenti a un clan”… di omosessuali, ma potrei anche dire “froci”, di uomini di colore, ma potrei dire anche “negri”, di esodati, in cambio di una cicca spacciata per una stecca, ma potrei anche dire “disoccupati fisiologicamente programmati a restarlo”. La storia li ha definiti e discriminati così e in un ragionamento critico, se uso questi termini non lo faccio certo per discriminare coloro che – criminalmente – vengono indicati da questi termini dimidianti, ma per stigmatizzare quei vampiri perbenino che li hanno coniati, se ne sono serviti e se ne servono per sparigliare e sottomettere. Se lavoriamo sulle parole, non possiamo essere ingenui o sempliciotti di facile contentatura. Non possono essere ingenui, a maggior ragione, coloro che – “negri” o “clandestini” o “froci” o “eccedenti” di una qualche risma – cadono in questa gabbia e la fanno propria e guai a toccargliela. Il trucco sta nel far prendere tutto alla lettera e gli italiani ci sono cascati. Meno ci sono cascati quegli extracomunitari che pretendiamo di salvare dal mare per far morire di difterite in qualche campo di pomodori. Loro sanno, non in senso tecnico ovviamente, che cosa significa tradurre, perché conoscono lingue e dialetti altrui oltre ai propri. Chi sa tradurre, sa capire il barbaro e chi sa tradurre sa sopravvivere e alla fine trionfa, purtroppo vendicandosi. La relazione da me a te è sempre una traduzione. Prendere alla lettera qualcosa o qualcuno e infilzarlo con lo spillo di un’etichetta una volta per sempre come fosse un insetto in una teca sprigiona violenza. San Girolamo, il patrono dei traduttori, diceva che le cose, della Bibbia in primis, che devono transitare da una riva all’altra non vanno prese alla lettera perché nel tragitto muoiono. Purtroppo, oggi, molti sedicenti colti prendono tutto alla lettera, basta una parola per far scattare la loro reazione, bigotta, di finto scandalo, quasi sempre per deviare l’attenzione dallo scandalo che loro vivono di nascosto in prima persona. Pensiamo a che cosa accadrebbe se dovessimo tradurre la Bibbia alla lettera, un caos totale, dove partendo dal presupposto di dover capire tutto secondo un’origine fissata una volta per sempre… e ormai filologicamente comprensibile solo grazie a ipotesi interpretative ovvero ermeneutiche ovvero secondo un principio di traduzione creativa senza essere ricreativa… finisci col non capire niente. Io trovo, ad esempio, che la nostra classe dirigente, al di là del livello spaventoso di collusione a monte con le criminalità imprenditorialmente meglio organizzate, sia soprattutto incapace di tradurre, al massimo ricicla la stessa materia morta una volta lavata. Lavano e rilavano e i puliti alla lettera sono loro, i più sporchi del creato. Dirglielo sul muso è il preciso dovere di ogni cittadino che non voglia delinquere anche solo tacendoglielo.

Non solo i corpi sono stati mercificati, ma le menti sono state colonizzate. Siamo davanti ad una vera colonizzazione delle menti

Lei però non si nega a questi dibattiti, recentemente è stato in televisione…
È un buon laboratorio multifunzionale, un buon pollaio e sai sempre a quanto sta l’uovo di giornata. Come scrittore io ho grande attenzione ai linguaggi, agli idioletti, alle finte autenticità di ogni registro e timbro adottati per simulare e dissimulare, e non mi sono mai negato – perché osservo, è il mio mestiere – al linguaggio televisivo, che ho capito come quello del mercato rionale del venerdì o dei grossi papaveri che al piano bar di un albergo si esprimono per allusioni, monosillabi e mimiche facciali. Lì, nelle televisioni, si forma la standardizzazione del linguaggio e del pensiero del cosiddetto uomo comune, e comuni lo sono tutti quelli che guardano la televisione o stanno su internet per distrarsi anziché per studiare i mascheramenti del nemico – comune è il “buon padre di famiglia” secondo il diritto e magari medio e alto borghese, che poi magari si sente in diritto di violentare i figli e di picchiare la moglie a sangue. Ai primi di giugno, comunque, in un dibattito televisivo in cui si parlava di gruppetti di gay che vanno a farsi curare… da santoni, da sacerdoti, da ex malati ormai guariti… perché si considerano dei malati e dunque essendolo in modo talmente grave e poco immaginario che dovrebbero rassegnarsi e farsi internare in perpetuo all’istante, ho articolato la seguente frase: «Ci sono molte persone che guariscono soltanto se ammattiscono ancora di più. Quando si sentono guarite, ovvero sono ammattite del tutto, si trasformano in guaritori a loro volta». Reazione? Nessuna, non l’hanno capita, perché la frase è troppo articolata e lunga, e nasconde un umorismo satirico troppo sottile, nonché qualche sottrazione semantica di troppo, secondo me solo troppo didascalica e superflua. Io avrei riso come un pazzo se l’avessi sentita pronunciata da qualcuno e gliene sarei stato grato immensamente. Lì in studio, con forse un centinaio di ospiti presenti, e quindi a casa, niente, sentivi risuonare i cervelli vuoti, svuotati di connessioni sensoriali tuttavia non eccezionali. Ecco, vede, non solo di qua, ma anche di là dello schermo, negli studi televisivi stessi, qualcosa è cambiato. Il presentatore non ha alcun livello culturale, intellettuale, civile ed estetico superiore al suo ricettore, chi presenta potrebbe benissimo starsene seduto sul divano a guardare un altro qualsiasi sé che si presenti alla telecamera. I due in uno condividono però gli stessi libri: quelli non letti e che mai verranno letti. Io, che ne ho visti passare tra le mie mani non meno di trentamila, devo sempre sottostare al loro di linguaggio, il mio non lo capirebbero: devo sempre tradurre verso il basso, l’elementare, il telefonato, il previsto, il risaputo, e non mi rassegno mai del tutto, da qui le mie sfuriate improvvise e impreviste, impreviste non certo per me. Tu puoi dire latticino e poi lo traduci con caglio e poi con formaggio, e però quando chiedono che significa e gli dici “latte” e ti senti chiedere “potrebbe essere più chiaro? Che significa latte?” vai fuori di matto, seppure mai del tutto, perché allo stesso tempo ti chiedi se non abbia proprio ragione chi non capisce “latte” perché magari ha una rimozione che risale all’infanzia e al rifiuto subito dalla mamma, che lo mandava a poppare dalla balia per non rovinarsi il seno. Inoltre la televisione costringe linguaggi come i miei a sforzi di sintesi sovraumani, perché dopo sette secondi l’attenzione scema e – ce lo dicono gli esperti – la gente cambia canale. Allora che cosa si fa? Si urla, si alza la voce, si sovrappone voce su voce e si ottiene solo un’unica grande onomatopea, l’ecolalia del nostro scontento di sordomuti che si sfogano. La struttura profonda del linguaggio verbale, e ormai scritto, è stata modificata dall’ipervelocità fonetica: non c’è tempo per articolare un pensiero, solo per dare fiato a un bisogno. Oggi, il messaggio è solo banalmente contenutistico, elementaristico e utilitaristico al tempo stesso: “vado”, “vengo”, “ho fame”, “ci vediamo”, “quanto costa”, “quanto hai” e “rispondimi solo se anche per te il sogno è la tua realtà”, sempre “uno su mille ce la fa”, mai “uno su due te la fa”.

Uno dei suoi primi passaggi tv coincise con un processo per oscenità. In prima serata, su Rai3, venne trasmesso il dibattimento su Sodomie in corpo 11. Erano anni che non si vedevano un libro e uno scrittore in tribunale.
Per me era la prima volta, fu come al ballo delle debuttanti, mi presentai in smoking e con un narciso giallo tra le chiostre dei denti. Come Flaubert, mi trovavo dinanzi a una magistratura che agiva su querela anonima e brandiva l’accusa dell’osceno. Nel dibattimento lessi alcuni brani del mio libro, inutile dire che, purtroppo per le vendite, venni assolto. Ma nessuno, ancora oggi, sa chi sporse denuncia contro di me. Questo mi è bastato per capire di che pasta è fatta la magistratura italiana. Oggi, però, questo ci dice anche di che pasta è fatta la cultura televisiva, quella che forma il senso comune degli italiani. Recentemente, come ospite in una trasmissione televisiva, ho chiesto di poter leggere dei passi di classici. Visto che il tema del dibattito era l’omosessualità, pensavo che leggere non dico Aldo Busi ma Catullo o Wilde o qualcosa di quella grande checca velata di san Paolo non avrebbe scandalizzato nessuno. Invece no, non si può fare.

Passa di tutto in televisione, perché non si può fare?
La scusa è che la gente cambierebbe canale. Ma la verità è che hanno paura della bellezza. Se i telespettatori cominciano a fare confronti tra la bellezza di una lingua e la sciatteria di una linguacciuta crollano baracca e burattini – e sistema pubblicitario, e merci e servizi tanto indotti quanto superflui.

Come scrittore, il Suo è un corpo a corpo soprattutto con la lingua.
Totalmente, con la singola parola. Parola su parola. Un’opera deve essere a filo del presente, sempre contemporanea di se stessa. Io riscrivo molto, ma non nel senso che aggiungo chissà che, per il solo fine di riscrivere e rimpinguare la foliazione o emendare delle pecche. Nelle mie opere ci sono punti di arresto, spie e indizi che ho disseminato e dai quali riparto, per continuare a lavorare quando mi sentirò emotivamente pronto o certe persone ispiratrici di personaggi avranno finalmente tirato gli ultimi. O solo perché ho ritenuto indegno di perpetuare la memoria di un Eugenio Montale e al massimo poteva esser rinominato Genio Scopale, con licenza di accento tonico.

È così che Seminario sulla gioventù è stato più volte riscritto…
Sì, ma non perché io abbia tagliato parti o riscritto tutto il libro. È un processo continuo, che però non deve debordare. Ho già riscritto Vacche amiche (l’altra mammella di un’autobiografia non autorizzata), ora di foliazione doppia rispetto all’originale, doppia sottolineo, mica bruscolini, ma non tema, non lo pubblicherò, non da vivo. Questa necessità di riscrittura magari si concentra su un carattere, su una sola frase o su un trauma sul quale ho tirato via per il dolore che ancora me ne veniva, ma non per il dolore in sé, per la stizza di constatare che ancora aveva il potere di obnubilare la struttura frastica e che dunque la forma non era arrivata alla piena maturazione che le esigevo. Non si immagini un carro di zucche pronte per essere trasformate in altrettanti casoncelli, magari è solo questione di focalizzare una certa patina su una cucurbitacea in lontananza che riverbera su personaggi dalla zucca dura in primo piano e ne sfuma la psicologia e l’azione imminente, ci posso impiegare anni prima di mutarla nella sua precisa sfumatura alfabetica e alla prima edizione economica, zac, e ce la infilo.

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