“Per la mente, con il cuore” è il motto di Progetto Itaca, volontari per la salute mentale in 17 città italiane, una linea d’ascolto (800.274.274 da fisso e 02.29007166 da cellulari) che è un approdo sicuro per persone dentro una tempesta psichica o, più spesso, per le loro famiglie. Un’esperienza cresciuta a vista d’occhio, perché sono tanti che, come Ulisse, desiderano tornare a casa loro, ossia alla loro serenità, al loro equilibrio, alla pace.
L'associazione è entrata dal 2001 nelle scuole di Milano e da settembre attiverà aiuti in altre sedi scolastiche. Cristina Migliorero, coordinatrice del gruppo di Milano e punto di riferimento per i gruppi nascenti in tutta Italia, racconta con estrema precisione e con passione la sua disponibilità e il suo fare. E si racconta a VITA così: “Sono una volontaria di Progetto Itaca dal 2014. Sono entrata mi sono avvicinata in realtà per caso".
Com’è stato l’inizio di questa esperienza?
Ero lì con i classici pregiudizi, pensavo sì, certo, è una malattia ma buona parte di questa dipende anche dalla volontà, dalla volontà di reagire, dalla volontà di affrontare la cosa… e lì mi si è aperto un mondo e questo mi ha aiutato tantissimo nel mio privato a relazionarmi con chi aveva questo problema e di conseguenza ad aiutare la persona. Sono poi diventata volontaria e subito ho visto che nel panorama, mi piaceva questa idea del progetto scuola: ancora un altro mondo!
Cosa significa fare il volontario attivamente?
Normalmente significa dedicare tempo partecipare, nel caso specifico del Progetto di cui parliamo ci sono riunioni di confronto, andare nelle scuole a supportare lo psichiatra durante gli incontri, per cui è un impegno costante, ma essendo progetti che hanno una struttura ben definita l’importante è la costanza dell’impegno, rispetto ad altre forme di volontariato, qui si tratta di un gruppo di lavoro e questo è differente rispetto a un impegno personale una volta ogni 15 giorni.
Quale ragione o significato lei cerca e quale trova, nel fare questo tipo di volontariato?
Intanto “egoisticamente” io penso che il volontariato sia fare del bene, fare qualcosa che sia utile per la società e per qualcuno, ma che c’è anche una parte di soddisfazione personale, altrimenti non può reggere molto a lungo. I nostri volontari rimangono per tanti anni legati all’associazione, perché c’è proprio un progetto molto comune, con delle finalità ben precise: la lotta allo stigma, il voler cambiare la mentalità della società nei confronti della salute mentale! Per cui al di là del singolo progetto c’è questa idea di lavorare tutti per un fine preciso a livello sociale, che è una ambizione che abbiamo e che portiamo avanti negli anni e abbiamo la convinzione anche grazie al nostro lavoro, qualche cosa nei confronti della salute mentale, sta cambiando.
Quando si arriva a toccare lo stigma si fa anche cultura?
Esatto, è un impegno che va al di là di quello che fa ogni singolo volontario ma è per un qualcosa che, soprattutto negli ultimi anni, grazie anche allo sviluppo della associazione che ha avuto una espansione in moltissime città di Italia, ci ha fatto sempre di più convincere che questa è la strada giusta. Le realtà in Italia sono molto diverse, si vede soprattutto nel Progetto scuola: l’approccio delle scuole nei confronti di queste tematiche cambia tantissimo dalle grandi città ai piccoli centri, il nord e il sud… il lavoro da fare è tanto ancora. Però, se non altro, ora di salute mentale si parla! Prima non accadeva.
L’associazione è cresciuta così tanto perché aumenta il bisogno o perché del bisogno, se ne può parlare di più?
Intanto perché se ne parla di più, si viene più allo scoperto e soprattutto si comincia a chiedere più aiuto. Quando si chiede aiuto, purtroppo, ci si scontra con una realtà del Servizio sanitario nazionale-Ssn che è carente. Chiedere aiuto è molto difficile, rispetto a tutte le altre patologie: se io ho male a un piede non ho nessun problema a chiedere aiuto a un ortopedico. Quando ho un problema di salute mentale, soprattutto se in giovane età ma non solo, fa paura.
E si fa molta fatica, immagino
Sì, si fa fatica, una volta riconosciuto il bisogno, a chiedere aiuto, a rivolgersi a uno psichiatra. Il grosso problema è che nel momento in cui i la persona fa questo sforzo notevole di chiedere aiuto, se poi questo aiuto non arriva, questa persona è persa. Per i ragazzi ancora di più: se uno chiede aiuto e la risposta è “fra sei mesi ha l’appuntamento, quello è uno sforzo inutile.
Però voi ci siete
Sì ed è importante il fatto che esista una associazione che non cura, che però dà un supporto a chi soffre, alle famiglie e ti accompagna a districarti in quella che è la realtà del Ssn: capire a chi rivolgerti e quali sono le figure più adatte alla tua necessità. L’esigenza nasce molto dai familiari che si ritrovano, spesso e volentieri, abbandonati a dover gestire situazioni complicate, dove non sanno davvero da che parte girarsi.La persona che soffre magari è curata e supportata ma chi gli sta intorno ha grosse difficoltà e non sa come comportarsi e come difendersi, perché a volte se situazioni sono davvero drammatiche.
A parte la malattia conclamata, quale è invece l’aspetto subdolo che vive in una famiglia così colpita? Persone che restano in silenzio e che bisogna portare a chiedere aiuto
La mia esperienza diretta è con i giovani. Diciamo che i genitori sono spesso il primo ostacolo, perché fanno molta fatica con la cura dei ragazzi. I ragazzi non possono essere curati in quanto minorenni, se non c’è l’approvazione dei genitori. Spesso la difficoltà da parte della famiglia è proprio riconoscere che il figlio abbia un problema di questo tipo e superare quelle paure, al di là dello stigma, e arrivare a decidere di superare il tutto e accompagnare il figlio in un percorso di questo tipo. Questo è spesso – ce lo dicono anche i ragazzi- che avendo molta difficoltà, nel momento in cui manifestano anche ai genitori il problema, questi per una serie di motivi, non certo per cattiveria ma spesso per difenderli, per la convinzione che verifichiamo spesso che se c’è un problema di questo tipo c’è per forza qualcuno che è colpevole e spesso i genitori si sentono colpevoli! Questa è anche la colpa di chi racconta la malattia mentale! Anche l’anoressia per tanti anni era giustificata con colpe della figura materna prima, paterna poi… Invece quello che noi andiamo a raccontare ai ragazzi e ai genitori con questo nuovo progetto, è proprio che non è colpa di nessuno! Noi incontriamo i ragazzi e i genitori per un paio di ore e dobbiamo sintetizzare, e raccontiamo i fattori che influenzano la salute mentale sono molti e c’è anche una componente genetica, biologica e quindi, c’è una sorta di vulnerabilità che nessuno conosce a priori perché non ci sono esami clinici che ci danno questo responso, per evitare i fattori di rischio che possono influenzare la nostra salute mentale.
Del tipo?
Ma a partire da dove nasci, come vivi, fino ad arrivare a cose traumatiche, ci possono essere dei traumi come i cyber bullismo, violenze di vario tipo che nei ragazzi generano una serie di traumi che possono scatenare un problema di salute mentale e non per ultimo, cosa che diciamo sempre nelle scuole molto chiaramente è ciò che riguarda l’uso di sostanze. Al di là di un discorso moralista noi facciamo un discorso realista. Gli psichiatri raccontano quel che vedono nei pronto soccorso, se ci sono delle vulnerabilità anche la droga leggera può creare problemi: ci sono ragazzi a cui se va bene hanno un attacco di panico, se va male entri in un loop di problemi che non è detto finisca quando poi finisce l’effetto della sostanza che hai preso.Quello che si dice è che tutto contribuisce alla nostra salute mentale. Però essendo una cosa così complessa, quello che diciamo ai ragazzi è che non devono sentirsi in colpa.
È una malattia…
È una malattia e, come tale, va curata dalle persone giuste e gli specialisti della salute mentale sono principalmente gli psichiatri e andare dagli psichiatri non significa andare dal "medico dei pazzi" ma andare da uno che è in grado, essendo medico, che può escludere tutta un'altra serie di fattori che posso darmi fastidi simili a un disturbo mentale ma che poi un disturbo mentale non sono e questo è molto importante. Quello che cerchiamo di dire ai ragazzi è che, se uno sta male – facendo la dovuta differenza tra quelli che sono i disagi adolescenziali e quelli che invece sono i campanelli di allarme – finisce per avere la vita cambiata: non faccio più le cose di prima, non faccio ciò che mi da soddisfazione, non incontro più gli amici, non vado più a pallavolo, ho una vita più isolata e soprattutto quanto dura questo. Posso avere la giornata “no” o il momento negativo se prendo un brutto voto, se ho un momento di tristezza, ma se questa cosa mi impedisce di vivere la mia vita e perdura, devo chiedere aiuto.
Quindi voi entrate nelle scuole a parlare di salute…
Andiamo nelle scuole, organizziamo degli incontri con lo psichiatra: ci rivolgiamo alle classi di terza superiore, perché quella è una età in cui si può parlare più esplicitamente di patologie e sulle diverse tipologie di disturbo e poi perché 16 anni è una età in cui arrivano i primi segnali, in cui si manifestano le patologie più gravi come la schizofrenia e che a volte vengono sottovalutati. Arrivarci dopo cinque o sei anni rende la patologia molto più grave, come in tutte le malattie vale la tempestività dell’intervento. Questo tipo di problema ti fa buttare via anni di vita: si comincia in adolescenza, coi primi segnali non riconosciuti da nessuno, e si tira avanti fino ai 40 anni. Vite con una serie di limitazioni in cui ci si barcamena.
Come funziona il progetto?
È rivolto principalmente ai ragazzi, con una partecipazione degli insegnanti in quel momento presenti nella classe ma era una cosa di prevenzione sui ragazzi. Sempre di più, negli anni, i professori hanno cominciato a chiederci se potevamo fare degli interventi simili per loro o per i genitori. La partecipazione a volte era irrisoria, a parte alcune situazioni dove c’erano associazioni di genitori che coinvolgevano. Ma la maggior parte delle volte ci sentivamo dire dai genitori “a me non riguarda, mio figlio non ha questo problema”.
E con la pandemia?
Come sempre quando succedono cose brutte, possono accaderne altre belle: la pandemia ha portato intanto alla ribalta questo problema. Si è cominciato a parlare di salute mentale nell’adolescenza, ha messo in crisi famiglie e genitori, le famiglie si sono ritrovate ad avere i figli sotto il naso tutto il giorno e li hanno visti, hanno notato cose che magari prima non vedevano, gli insegnanti si sono trovati in situazioni difficili e hanno parlato molto coi ragazzi… Adesso la richiesta c’è e abbiamo messo in pista questo progetto e stiamo facendo gli incontri-pilota con i genitori ed è stato un successo perché c’è bisogno di parlare di questi argomenti. Lo scorso anno scolastico, solo a Milano, abbiamo raggiunto 24 scuole, circa tremila studenti.
La foto di Migliorero e dei volontari di Itaca sono di Lucrezia Roda, gentilmente concesse.
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