Una vita “in servizio”, quella di Marcello Bedeschi, classe 1940, la cui storia personale e professionale incrocia Giorgio La Pira, il periodo post-bellico, sindaci e amministratori comunali italiani dal 1970, Azione cattolica nazionale con Vittorio Bachelet, Mario Agnes e Alberto Monticone, tre papi. Bedeschi, infatti, fu uno dei collaboratori più diretti di Giovanni Paolo II nel dare avvio e poi stabilità alle Giornate mondiali della gioventù-Gmg ed ha avuto relazioni istituzionali dirette con Benedetto XVI e Francesco I. Insieme a Labsus, alla rete dei Piccoli comuni del welcome e VITA con Riccardo Bonacina è stato il promotore dei “Patti di Leopoli” tra sindaci italiani e ucraini, una delle azioni del Mean-Movimento europeo di azione non violenta. All’ultima assemblea congressuale di Torino di fine novembre, Marcello Bedeschi ha ricevuto un saluto di ringraziamento da tutta l’Associazione nazionale comuni italiani-Anci nel momento in cui lasciava il suo ruolo di responsabile del Coordinamento dei segretari e dei direttori regionali-Cosdar, divenendone decano.
Accoglienza, dialogo, condivisione, solidarietà, fraternità, comprensione e aiuto reciproco, e soprattutto, pace: i valori che lei ha ricordato in questi anni d’impegno…
Assolutamente sì, anzi le dirò che i miei principi ispiratori sono da sempre la partecipazione e i fondamenti ideali di Giorgio La Pira e i principi autonomistici di Luigi Sturzo che, ricordiamo, svolse un grande lavoro a favore dell’Anci di cui fu cofondatore.
La sua vita in Anci comincia nel 197O, una storia accanto a comuni e comunità locali lunga 55 anni. Qual è il ricordo più significativo?
Forse proprio gli anni in cui tutto è cominciato. Come funzionario amministrativo inizio nel 1972 nel Comune di Ancona quando la città fu aggredita da un violento terremoto: prima i soccorsi, poi la successiva ricostruzione abitativa, la nascita dell’ospedale regionale, l’avvio dell’Università. Ero accanto all’allora sindaco, Alfredo Trifogli, che poi mi propose la nomina a segretario regionale di Anci Marche.mAltro momento significativo fu quello di fornire le attrezzature all’ospedale pediatrico a Betlemme, il “Caritas baby hospital”, costruito dalla Caritas svizzera ma con personale italiano e palestinese.
Lei ha un convinto e costante senso di “impegno sociale”: quando comincia questa “vocazione”?
Alla fine dei miei degli studi universitari, nei primi anni ’60. Feci due concorsi: uno per entrare negli organici della Commissione europea a Bruxelles, l’altro per il Comune di Ancona. Li vinsi entrambi, ma il primo a chiamarmi fu Bruxelles. Due anni dopo, però, il sindaco Trifogli mi chiamò per propormi di dirigere il settore “Partecipazione democratica” del Comune. A seguito di una riflessione famigliare e dopo i consigli del prof. Giorgio La Pira, tornai ad Ancona, accettai quell’incarico e, in più, il sindaco mi chiese di rilanciare l’Anci Marche. Oggi i Comuni marchigiani aderenti ad Anci sono 233, quando io iniziai erano solo 72. Iniziano così i miei contatti con Anci nazionale, dove ho avuto la possibilità anche di conoscere lo storico segretario generale, Giovanni Santo, che mi fece comprendere “sul campo” che «I problemi che i cittadini pongono ai Sindaci per essere risolti sono uguali per tutti e così pure le risposte da dare».
«Impegno sociale e attenzione agli altri» è dunque il messaggio che lei lascia ai Comuni italiani…
In gioventù ho avuto il privilegio dell’amicizia con l’allora sindaco di Firenze, Giorgio La Pira, che mi ripeteva sempre che «Ogni cittadino deve riconoscersi promotore di solidarietà e di pace con lo spirito della spes contra spem: dobbiamo avere speranza contro la speranza, fede incrollabile che la pace si può e di deve promuovere, che l’impegno verso gli altri deve essere costante e ferreo». La pace, soprattutto, deve essere il nostro nuovo baricentro. Ne ho parlato di recente con il vicario della custodia di Terra santa, padre Ibrahim Faltas e, tramite il Mean, con dirigenti che operano in Ucraina e a Gaza.
Ma lei ha avuto un’altra grande amicizia, vero?
Sì, la mia vocazione verso l’impegno sociale ha un’origine: san Giovanni Paolo II e il diretto rapporto che ho avuto con lui. L’ho conosciuto all’inizio degli anni ‘70 tramite il vescovo di Ancona, Carlo Maccari, che era stato suo vicino di seggio durante il Concilio vaticano II. Le sue iniziative per i giovani mi affascinavano tanto: subito dopo la sua nomina al soglio pontificio gli diedi la mia piena disponibilità a collaborare per la realizzazione dei suoi progetti pastorali. Nel 1983 fui pienamente coinvolto nella preparazione del grande incontro dei giovani che diede poi vita alle Giornate mondiali della gioventù. Durante un lungo colloquio che ebbi con lui durante una passeggiata nelle montagne abruzzesi, Wojtyla mi parlò lungamente di come aiutare i giovani a «fare memoria delle esperienze positive ma anche negative della propria infanzia e dei successivi tempi giovanili della propria vita, poiché costituiscono il patrimonio al quale attingere le motivazioni delle proprie scelte e dei propri impegni».
Perché?
Avevo pochi anni e ho visto il dramma della guerra: i bombardamenti, l’esodo da profughi della mia famiglia, le angosce di mia nonna che aveva quattro figli militari, i rastrellamenti nazisti che portarono via mio padre e due miei zii. Di questo periodo ricordo soprattutto la fame e la generosità delle persone che aiutavano la mia famiglia. Quando le truppe polacche del generale Andersen liberarono Montelupone, dove eravamo sfollati, nel ritornare in Paese incontrammo un raggruppamento militare che stava pranzando con gavette piene di minestrone e di altro cibo. Un polacco ci vide, smise di mangiare e mi porse la sua gavetta. Sento ancora il profumo e il sapore di quel minestrone: un gesto che non ho mai dimenticato. Peppone, così lo chiamai in seguito, continuò ad assistere tutta la comunità dove eravamo rifugiati. Fu con lui che feci l’esperienza del donare quando mi portava a consegnare pacchi di viveri ai profughi. Questa esperienza mi portò ad aderire alle associazioni come la San Vincenzo de Paoli, le mense francescane e l’Azione cattolica in cui mi impegnai per anni sino a diventare membro della presidenza nazionale. In questi anni di impegno conobbi testimoni come Giuseppe Lazzati, don Giuseppe Dossetti, Aldo Moro e Achille Ardigò. Saggi amici che mi hanno sempre aiutato a capire gli avvenimenti sociali e politici e che mi hanno sempre spronato a sostenere tutte le iniziative di solidarietà.
Quali i momenti più significativi della storia dei comuni italiani lunga 55 anni?
Prima di tutto il processo che ci portò all’approvazione della legge 142 sull’elezione diretta dei sindaci. Poi ricordo Carlo Cingolani, presidente di Anci Marche, che nel 1983 chiese di modificare lo statuto nazionale costituendo le Anci regionali introducendo l’autonomia statutaria e la partecipazione agli introiti finanziari nazionali con le quote di iscrizione. Ancora, la realizzazione degli ambiti operativi di Anci: la Conferenza dei presidenti Anci regionali, il Coordinamento dei presidenti Anci regionali e il Cosdar: si passò da un’attività di vertice ad un’attività partecipata di tutti i comuni italiani. E poi altre due “presenze” importanti: quella del Presidente della Repubblica alle assemblee annuali dell’Anci e quella dei sindaci a 12 udienze particolari dal Papa. E non posso dimenticare la stretta collaborazione con la Protezione civile.
foto: Luca Daniele
All’Assemblea Anci di Torino, a novembre, lei ha ufficialmente concluso il mandato di responsabile Cosdar: quali emozioni e quale messaggio alle giovani classi dirigenti?
Mi sono commosso profondamente nel ricevere quella targa che considero un attestato di stima: nel prenderla tra le mani, ho sentito l’espressione di tutti i cuori dei colleghi nel mio cuore. Ho molta fiducia nei giovani, ai quali dico sempre che l’impegno sociale e la generosità verso gli altri sono i due valori che ci rendono veri e competenti amministratori, forti, coesi, migliori e consapevoli cittadini.
foto: Marcello Bedeschi
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