Lo scorso 5 settembre è rientrato da Tokyo con il bottino più ricco della storia, 69 medaglie, dell’Italia alle Paralimpiadi. Un risultato straordinario che Luca Pancalli, lui stesso atleta di successo con 15 medaglie paralimpiche e oggi presidente del Cip (Comitato Italiano Paralimpico), ha salutato con grande soddisfazione e un monito: «Queste medaglie, verso le quali oggi c’è la giusta considerazione e alle quali si dà finalmente il giusto valore, ci dicono che la strada intrapresa è quella giusta verso una silenziosa rivoluzione culturale che possa contribuire a costruire attraverso lo sport un Paese più equo, più democratico, più giusto. Ecco, se posso ribadire un appello: quando calerà il sipario, l’Italia non ci abbandoni. Non questa volta».
Presidente, a venti giorni dal rientro, a che punto è il sipario?
Per ora i riflettori non si sono ancora spenti del tutto, ma è fisiologico che l’attenzione calerà. A quel punto starà a noi, come al solito, attraverso i nostri straordinari atleti e attraverso le nostre organizzazioni “costringere” la politica a tenere alto l’interesse verso il sacrosanto diritto dei disabili di praticare sport e ancora di più verso il diritto delle persone con disabilità a godere appieno dei diritti di cittadinanza come qualsiasi altra persona.
Cosa subito per mettersi sulla giusta strada?
Le dico la prima cosa: rendere fruibili e accessibili gli ausili e le protesi per iniziare l’attività sportiva. Si ha poca contezza che molti dei nostri atleti hanno bisogno di ausili e che questi ausili hanno costi esorbitanti al di fuori delle possibilità della maggior parte delle famiglie. Questo per quanto riguardo lo sport. Ma i riflettori sullo sport paralimpico devono servire anche e soprattutto ad altro. A tenere accesi i riflettori su tutte le problematiche che vivono le persone con disabilità che non saranno mai atleti. Il diritto allo sport non può essere scisso dal diritto all’istruzione, alla formazione, alla vita indipendente, a un’assistenza dignitosa per i non autosufficienti e per i disabili più gravi.
Cosa pensa della polemica nata per la differenza di premi fra i medagliati alle Olimpiadi e i medagliati alle Paralimpiadi?
Mi fa piacere che ci sia tanta attenzione, ma non è una polemica che facciamo noi. I premi sono un tema che abbiamo all’ordine del giorno prima ancora della partenza per Tokyo. Ne parleremo, ma credo che se noi focalizziamo l’attenzione sui pochi premi da destinare all’uno per mille degli atleti disabili che arrivano sul podio in un’Olimpiade, perdiamo di vista il fatto che la dignità di ogni sportivo disabile non passa dall’importo del premio per chi riesce a tagliare il traguardo olimpico, ma dalle opportunità che apro all’inizio del percorso sportivo affinché siano sempre di più quelli che possano sperare di arrivare in cima al mondo. Sono scelta di politica sportiva, tenendo conto che nelle Paralimpiadi ci sono 220 medaglie in più rispetto alle Olimpiadi. Per fare un esempio noi a fronte di una gara nei cento metri stile libero per gli uomini e di una per le donne, noi ne contiamo 14 e 14.
Scelte di politica sportiva, diceva…
Sì, dobbiamo scegliere come impegnare le risorse sapendo che ogni euro che va in premi è un euro che non viene speso per garantire l’accesso alla sport di chi campione non è. Il cosiddetto sport di base. Io mi auguro che sull’onda emotiva delle medaglie nel Paese cresca l’attenzione nei nostri confronti quando andiamo a “combattere” per garantire l’accessibilità di un impianto sportivo in Italia dove una palestra su tre è inaccessibile o quando scendiamo in campo per gli ausili di cui ho detto poc’anzi o per garantire la disponibilità di protesi. Da ex atleta, da uomo di sport e da dirigente vorrei che il faro ora si spostasse sulla dignità delle persone con disabilità.
Ne abbiamo parlato anche su queste colonne: chi ha raccontato le Paralimpiadi, molto spesso non ha rinunciato a mettere in primo piano insieme alle performance anche la natura delle disabilità degli atleti. Quanto vi dà fastidio questo tipo di narrazione?
Oggi le cose sono cambiate, non è più come un tempo. Gli atleti, io stesso in primis, sono consapevoli delle loro disabilità. Siamo contenti se da casa persone con i nostri problemi o simili ai nostri possono considerare di fare sport ad alti livelli proprio vedendo le nostre gare. Ambra Sabatini che ha vinto l’oro nei cento metri ha cominciato a gareggiare vedendo in tv Martina Caironi e la stessa cosa è valsa per lei nei confronti di Monica Contrafatto. Oggi gli atleti spesso sono i primi a voler mostrare la propria disabilità per raccontarsi ed essere di ispirazione per altri.
Favorevole o contrario al ministero per le disabilità?
Può avere un senso nella misura in cui svolge la funzione di coordinamento fra le politiche attive in favore del mondo della disabilità. Ciò detto il Paese che vorrei non ha bisogno di un ministero ad hoc perché i diritti del cittadino disabile sono considerati prioritari in tutti i ministeri.
Torniamo alle gare…che differenza c’è fra lo spirito agonistico di un atleta olimpico e un atleta paraolimpico?
Assolutamente nessuna. In più fra gli atleti disabili c’è un grande spirito di comunanza trasversale a tutti i tipi di disabilità: non vedenti, amputati, in carrozzina, disabili intellettivi siamo un’unica galassia. E questo genera una consapevolezza importante che ha a che fare con la rivoluzione culturale a cui accennavo in precedenza.
Ovvero?
Non posso parlare per ciascuno di loro, ma guardo i comportamenti e ascolto quello che raccontano nelle interviste. Ciascuno di loro e lo dico senza enfasi interpreta in modo straordinario la responsabilità di essere motore di questa rivoluzione silenziosa. Il nostro è un mondo circolare: tutti tentiamo di restituire al mondo della disabilità quello che noi abbiamo ricevuto dalla pratica sportiva.
Foto: CIP – Comitato Italiano Paralimpico
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