Rai. Di tutto, di più. Chi non ricorda questo slogan? Siglava una campagna memorabile prodotta dalla McCann-Erickson di Roma, per oltre 15 anni guidata dal direttore creativo Marco Carnevale. Con un passato professionale di altissimo livello, un portfolio di campagne di almeno 200 marchi e oltre 160 premi e riconoscimenti nazionali e internazionali, Marco Carnevale è uno dei creativi che ha plasmato il nostro immaginario a cavallo del millennio. Oggi pubblica un libro di denuncia, con Prospero Editore, intitolato “La réclame dell’apocalisse”.
Il libro – che l’autore definisce un velenoso pamphlet – mette in guardia gli investitori pubblicitari da quella che non esita a definire la “grande truffa” dell’advertising digitale. Una truffa che opera su due livelli. In primo luogo, spacciando prospettive di efficacia illusorie. Almeno il 70% della pubblicità che viene diffusa nel web si perde in siti fasulli, o non raggiunge l’utente profilato, o semplicemente non ha alcuna chance di arrivare a persone in carne e ossa. In secondo luogo, l’irruzione prepotente dell’attore digitale nel mercato dell’advertising ha incrinato la relazione tra comunicatore e pubblico che era stata costruita in anni e anni di evoluzione dei linguaggi per lasciare campo libero a uno stalking incessante e intrusivo.
È stato infranto un patto. E a infrangerlo è stato il dispotismo dei numeri brandito con arroganza da chi quei numeri stessi manipola a proprio piacimento. Scrive Carnevale: “Fin dalla sua comparsa l’adtech non si è limitato ad avvelenare i pozzi della comunicazione pubblicitaria con mezze verità, postulati pseudoscientifici e grossolane bugie, ma si è dedicata con altrettanta foga a distruggere la preesistente cultura professionale frutto di oltre un secolo di evoluzione della pubblicità moderna”. Incuriositi anche dalla veemenza polemica del testo, abbiamo posto all’autore di “La réclame dell’apocalisse” qualche domanda sulla tesi sostenuta dal suo libro.
È più utile chiedersi chi ci guadagna. Solo ed esclusivamente tre attori: le Big Tech, i parassiti e i criminali. Tutti gli altri ci perdono.
Marco Carnevale
Marco Carnevale, è vero che con l’avvento del digitale, la comunicazione pubblicitaria non solo non si è evoluta, ma è regredita? In che senso?
È stato un salto mortale all’indietro di oltre sessant’anni, a prima che la cosiddetta “rivoluzione creativa” cambiasse i connotati e la natura della pubblicità, trasformandola da una pseudo-scienza al servizio del vorace consumismo di una società massificata a una sapiente arte della persuasione all’altezza dell’opinione pubblica evoluta di una società “aperta”. Da allora questa industria ha speso le sue migliori energie (e raccolto i suoi migliori successi) nell’emanciparsi dalla sua funzione di puro martellamento per diventare, fra le altre cose, anche uno degli agenti del cambiamento. Con risultati clamorosi per le aziende, e una capacità di attrarre l’attenzione del pubblico che spesso arrivava a competere testa a testa con i migliori contenuti editoriali in circolazione.
Tutto questo è stato dissipato solo grazie alla generale conversione alla mistica tecnocratica e nuovista che ha consentito alle Big Tech di dettare legge su una materia della quale ignoravano – vantandosene, come al solito – i più elementari rudimenti. Ma la colpa non è loro, che hanno fatto i loro interessi. La colpa è delle aziende e delle agenzie, che non hanno fatto i propri.
E quali sarebbero gli interessi delle aziende e delle agenzie?
Lo scenario in cui opera la pubblicità non si chiama “mercato dell’attenzione” per caso: si chiama così perché ha come obiettivo quello di ottenere dal pubblico la massima attenzione possibile. Il che è esattamente il contrario di adattare la comunicazione agli infimi tassi di attenzione espressi da un pubblico ipnotizzato dallo scrolling dei device; addirittura alimentando questa disattenzione con un diluvio di messaggi inconsistenti, stereotipati, appiattiti sul contesto e quasi sempre sciatti, frettolosi e sgrammaticati. È come pensare di svegliare qualcuno cantandogli la ninna nanna.
Chi ne fa più le spese: il comunicatore, il destinatario della comunicazione, o il mercato?
È più utile chiedersi chi ci guadagna. Solo ed esclusivamente tre attori: le Big Tech, i parassiti e i criminali. Tutti gli altri ci perdono. Qui nessuno ne parla, ma l’automazione dei processi di comunicazione ha prodotto una deriva criminale mai registrata nella storia di questo settore. Stando ai vertiginosi tassi di crescita degli ultimi anni, si prevede che nel 2025 le frodi attinenti al sistema della digital advertising costituiranno la seconda fonte di profitto dell’economia criminale globale, subito dopo il narcotraffico. Viene da chiedersi come facciano le aziende a considerare tutto questo compatibile con i loro “bilanci di sostenibilità”.
Nel suo libro racconta casi agghiaccianti di truffa ai danni dell’investitore pubblicitario. Ce ne racconta qualcuno?
Gliene cito uno solo, ma clamoroso. Citybank, costola di un gruppo con una capitalizzazione di quasi 2000 miliardi di dollari, un bel giorno ha scoperto che i meccanismi automatizzati dell’adtech indirizzavano il suo cospicuo budget digitale su oltre 400.000 siti diversi, la maggior parte dei quali non tracciabili e neppure identificabili. Per testare l’efficacia di questo criterio di pianificazione quanto meno opaco, hanno deciso di ridurre di oltre il 90% il numero dei siti portandolo a soli 5000, senza che il ritorno dell’investimento ne risentisse minimamente. Cosa vuol dire è chiaro; e il fatto che siano documentati centinaia di casi analoghi – spessissimo ai danni di investitori di primissimo piano e di lunga esperienza – è inquietante.
Sulla capacità del mondo digitale di propinarci ciclicamente delle novità, lei parla in termini di “retorica del nuovo”, “superstizione devozionale”, “tecnofanatismo” e, in generale, di “fuffa” informatica. Non le sembra un po’ ingeneroso, o quantomeno un po’ passatista? Stavamo meglio quando stavamo peggio?
Il nuovismo compulsivo diffuso dalla propaganda delle Big Tech ha convinto l’intera industria della pubblicità che la nostra epoca – in assoluto la più avara di innovazioni profonde e sostanziali dalla rivoluzione industriale in avanti – sia un’epoca di vertiginosa proiezione verso il futuro. Almeno in questo campo, è vero il contrario. L’intero modello teorico e operativo della digital advertising è incentrato unicamente sulla gestione dei dati comportamentali, e il suo contenuto di innovazione è quindi esclusivamente funzionale agli interessi di chi li estrae e li commercializza: sempre i soliti.
In un mondo ideale, come dovrebbe essere la comunicazione pubblicitaria?
Dovrebbe essere ispirata e orientata – anche sui canali digitali – agli stessi obiettivi e principi di base che la pubblicità moderna ha affinato nel corso di oltre un secolo di incessante evoluzione delle tecniche e dei linguaggi; anche perché al di fuori di quegli obiettivi e di quei principi esistono solo inaudite sciocchezze, strumentali superstizioni e pericolosissime illusioni. Il tennis si gioca con le stesse regole di fondo sia sulla terra rossa che sull’erba: è lo stesso identico sport, solo con qualche variazione delle traiettorie di rimbalzo e dei tempi di reazione. Le Big Tech invece hanno preteso che il tennis sull’erba venisse giocato senza rete e senza racchette, indossando scarponi da sci e guanti da baseball; e già che c’erano hanno tolto di mezzo anche le palline. Il tutto senza che nessuno battesse ciglio. La domanda “come è stato possibile tutto questo?” attraversa in trasparenza tutte le pagine del mio libro.
Nell’immagine in apertura Marco Carnevale
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