«Vorrei che non ci fosse età di mezzo fra i dieci e i ventitré anni, o che la gioventù dormisse tutto questo intervallo; poiché non c’è nulla in cotesto tempo se non ingravidare ragazze, vilipendere gli anziani, rubare e darsi legnate». Così scriveva nel diciassettesimo secolo William Shakespeare in Il racconto di inverno (1611). A ricordarlo è Alfio Maggiolini nel suo libro “Pieni di rabbia” (FrancoAngeli) dedicato ai comportamenti trasgressivi e bisogni evolutivi degli adolescenti.
Negli anni Maggiolini ha incontrato moltissimi genitori, (di bambini e soprattutto di preadolescenti e adolescenti), in crisi nella gestione dei figli. «Padri e madri disperati e smarriti, sofferenti per la propria impotenza e alla ricerca non solo di un aiuto psicologico, ma anche di un’autorità che li rinforzi nello stabilire delle regole e nel farle rispettare. Alcuni genitori si rivolgono addirittura al tribunale per segnalare i problemi dei figli, o sono costretti a chiamare d’urgenza le forze dell’ordine per far fronte a una crisi particolarmente violenta».
Per trent’anni, infatti, con altri psicologi dell’équipe del Minotauro, Maggiolini ha incontrato migliaia di minorenni sottoposti a procedimenti penali nell’ambito dei servizi della giustizia minorile di Milano. I reati per cui gli adolescenti entrano nel circuito penale sono soprattutto furti, rapine e spaccio, ma anche imputazioni più gravi, dalla violenza sessuale ad aggressioni di vario tipo, fino agli omicidi. «L’incontro con la “patologia” del rapporto con le regole dei minori autori di reato – spiega- mi è stata molto utile per capire la “normalità” della trasgressività nello sviluppo, e per cercare risposte efficaci, educative e terapeutiche».
Interessante uno spunto che l’esperto riporta già nelle prime righe: «Dar per scontato che il genitore rappresenti il dovere e la razionalità e il figlio il piacere e l’impulsività è un modo stereotipato di descrivere i ruoli famigliari e in generale la funzione educativa». Cosa fare allora? Il consiglio, come leggeremo, di fronte al defiant child, (il ragazzo che sfida), è l’invito a cercare un senso. «La ricerca del senso, infatti, non può essere limitata all’analisi del comportamento dei figli (“Perché non mette in ordine la stanza? Perché ha distrutto tutto in una crisi di rabbia?”), ma occorre che si allarghi a quello dei genitori (“Qual è il vero motivo per cui gli chiedo di mettere in ordine la stanza?”). Anche in questo caso, la risposta sembra tanto ovvia da non aver bisogno di particolari riflessioni, ma non è così. Quando il problema supera la normale conflittualità tra i ruoli, è probabile che sia in gioco qualcosa di più e di diverso da quello che appare a prima vista.
Quando il problema supera la normale conflittualità tra i ruoli, è probabile che sia in gioco qualcosa di più e di diverso da quello che appare a prima vista
Alfio Maggiolini
Sebbene i conflitti fra genitori e figli hanno in realtà accompagnato ogni epoca nella storia dell’umanità, a ogni generazione si rinnova l’idea che i ragazzi non hanno più rispetto degli adulti e si ribellano alle regole. Questa generazione è davvero diversa dalle precedenti?
La generazione attuale, in realtà, non si caratterizza per una maggiore ribellione, se confrontata con le generazioni passate. Il problema dei figli di oggi è piuttosto di tendere a prolungare la loro dipendenza dai genitori, sia per la necessità di percorsi formativi prolungati sia a causa delle difficoltà a diventare economicamente autonomi. Proprio la costrizione di questo legame, tuttavia, in alcuni casi può essere la fonte di tensioni. In generale, lo stile educativo dei genitori attuali non è particolarmente rigido e autoritario e i figli non hanno una grande necessità di ribellarsi.
Che rapporto hanno i giovani di oggi con la rabbia?
Se si dovesse scegliere un’emozione come emblematica dei giovani di oggi dovremmo indicare la vergogna e il suo opposto: voglia di mettersi in mostra, anche esponendo la propria vita privata, o tendenza a ritirarsi dietro lo schermo di un computer. Ma certamente anche la rabbia può essere l’espressione del loro disagio, un modo per affermare i propri bisogni e per rivendicare il loro diritto a crescere.
Il disagio sociale dei giovani, spesso, ma non necessariamente, diviene anche disagio mentale. Oggi assistiamo ad un boom di disturbi del comportamento, aggressività e iperattività, oltre ai disturbi d’ansia e a quelli depressivi. Quanto e in che modo c’entra il Covid-19?
Il Covid-19 ha indubbiamente aumentato il disagio mentale dei giovani, che hanno vissuto un tempo significativo per il loro sviluppo in una condizione in cui sono mancate occasioni per fare esperienze e mettersi alla prova nella loro identità sociale, reclusi all’interno delle mura domestiche e ridotti per necessità al ruolo di figli. Bisogni emotivi fondamentali come esplorazione, autonomia, vita di gruppo, esperienze sentimentali sono stati bloccati, con effetti significati sul loro benessere.
Parliamo ora del limite. È diffusa l’opinione che da bambini abbiano avuto troppo, e per questo non si rassegnano ad accettare alcun limite ai loro desideri. Bambini viziati e vezzeggiati, disabituati a sentirsi dire di no, le cui pretese crescono di pari passo con il loro sviluppo. Secondo la sua esperienza, questa spiegazione è fondata?
Io non penso che sia necessaria un’educazione alla frustrazione. I ragazzi che hanno incontrato ripetutamente frustrazioni e deprivazioni nella loro vita in qualche caso possono esserne rafforzati, ma il più delle volte il loro sviluppo ne è compromesso. Questo non significa che sia utile evitare ogni frustrazione ai figli. I bambini hanno anche in sé la spinta ad essere autonomi, a esplorare e a fare da sé e a provare i propri limiti. È importante che i genitori riconoscano i diversi bisogni evolutivi nella loro complessità.
Dalle piccole trasgressioni quotidiane (bambini che rifiutano di andare a letto all’ora stabilita, che non sistemano i giochi), ai ragazzi che hanno comportamenti autolesivi, in cui l’aggressività è rivolta verso se stessi, oltre ai comportamenti violenti, in cui la rabbia è invece rivolta all’esterno. Nei casi più gravi, abusano di sostanze, spacciano, fanno risse e commettono furti o rapine… le famiglie sono tese, si sgretolano, si assiste ad un’escalation inarrestabile di conflitti sempre più aspri, che logora i genitori.
Io non penso che sia necessaria un’educazione alla frustrazione. I ragazzi che hanno incontrato ripetutamente frustrazioni e deprivazioni nella loro vita in qualche caso possono esserne rafforzati, ma il più delle volte il loro sviluppo ne è compromesso
Come possono essere aiutati questi adulti? Che cosa possono fare i padri e le madri per affrontare i problemi di comportamento, se non si sentono riconosciuti, se la loro parola non ha alcun effetto?
Innanzitutto, occorre evitare la tentazione di risolvere il problema con un aumento di potere e punizioni, che porta con sé il rischio di un peggioramento della situazione. La prima cosa da fare è di sforzarsi di capire di che cosa questi comportamenti sono l’espressione, le motivazioni e le intenzioni che ne sono alla base. I problemi di comportamento, infatti, normalmente sono il segnale di qualcosa che non va nel rapporto tra bisogni evolutivi e contesto di sviluppo, a parte situazioni in cui sono la manifestazione di gravi disturbi mentali. Per sentire riconosciute le proprie ragioni e il proprio ruolo, i genitori dovrebbero ascoltare le ragioni dei figli. Anche il Tribunale esercita più efficacemente la propria autorità di fronte ad un minore imputato se valuta i fattori di rischio e i bisogni evolutivi alla base del reato. Ma poi credo che occorra anche un cambio di paradigna.
L’educazione è il confronto “democratico” tra diverse esigenze prospettive e valori, quelli del padre e della madre (che spesso sono diversi) e quelli del figlio o dei figli, in un continuo aggiustamento. È un processo dinamico e interattivo, in cui i genitori educano i figli, che a loro volta in qualche modo “educano” i genitori.
L’educazione è il confronto “democratico” tra diverse esigenze prospettive e valori, quelli del padre e della madre (che spesso sono diversi) e quelli del figlio o dei figli, in un continuo aggiustamento. È un processo dinamico e interattivo, in cui i genitori educano i figli, che a loro volta in qualche modo “educano” i genitori.
Ci potrebbe spiegare?
Spesso noi pensiamo all’educazione dei figli come a un susseguirsi di interventi che li spingano a realizzare un nostro ideale, “con le buone o con le cattive” potremmo dire. Questo obiettivo è intrinsecamente manipolatorio. Questo non significa che dovremmo lasciar liberi i figli di crescere come vogliono, secondo la loro natura.
Limitarsi a trovare metodi più efficaci per realizzare gli obiettivi educativi nella prospettiva degli adulti, rischia di tradursi in un incremento della capacità di manipolazione: manipolare significa plasmare l’altro come fosse materia malleabile e, in senso più negativo, adattare, volgere qualcosa in senso favorevole a se stessi allo scopo di ottenerne vantaggi personali. L’educazione non può essere ridotta a manipolazione, neppure se esercitata con le migliori intenzioni. Penso che la migliore educazione, paradossalmente, sia una non-educazione e la migliore autorità una non-autorità, cioè un uso non manipolatorio del ruolo educativo».
Manipolare significa plasmare l’altro come fosse materia malleabile. L’educazione non può essere ridotta a manipolazione, neppure se esercitata con le migliori intenzioni. Penso che la migliore educazione, paradossalmente, sia una non-educazione e la migliore autorità una non-autorità, cioè un uso non manipolatorio del ruolo educativo».
Citando Allison Gopnik, una famosa psicologa che insegna a Berkley e ha scritto diversi libri importanti sullo sviluppo dei bambini, lei riprende la metafora del giardiniere e del falegname. Ce la spiega?
La Gopnik critica l’idea del ruolo dei genitori “falegnami”, che hanno in mente come devono essere i figli e che fanno di tutto perché assomiglino al loro ideale, proprio come un falegname che progetta un mobile e lo realizza con cura e abilità. È favorevole, invece, a un genitore che fornisce al figlio la possibilità di crescere creando un ambiente adatto, in cui possa sviluppare le proprie potenzialità, come fa un giardiniere con una pianta. Questa metafora è suggestiva, ma secondo me rende poco l’idea che lo sviluppo di un figlio è il frutto di una dinamica interattiva, a volte anche inevitabilmente conflittuale.
Infine, una domanda sugli adolescenti che commettono reati: nella sua lunga esperienza di psicoterapeuta degli adolescenti e dei loro genitori ha osservato spesso come in alcuni casi i problemi di disciplina e le reazioni rabbiose si aggravano e assumono le caratteristiche di veri e propri disturbi del comportamento – disturbo della condotta, disturbo oppositivo e provocatorio, disturbo antisociale della personalità – che richiedono un intervento terapeutico. In questi casi l’inserimento in una comunità terapeutica può essere una soluzione o è dannosa?
L’inserimento in una comunità a volte è una necessità. Per i ragazzi che hanno problemi gravi di comportamento può essere più utile una comunità educativa, molto orientata in senso progettuale e aperta al mondo esterno (scuola, lavoro, tirocinio, attività sportive o espressive), più che una comunità terapeutica, più attenta a lavorare sul mondo interno. Se una comunità sostiene i bisogni evolutivi degli adolescenti con progetti adeguati, integrando competenze educative, psicologiche e sociali, può essere utile, ma c’è il rischio che possa essere controproducente, se non riesce a contrastare le dinamiche gruppali, in particolare la tendenza degli adolescenti antisociali che sono in gruppo a influenzarsi negativamente a vicenda, “contagiandosi”.
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