Il Mediterraneo deve tornare ad essere laboratorio di pace. Sono parole, pronunciate due settimane fa da Papa Francesco a Marsiglia in occasione degli “Incontri mediterranei” con i vescovi e i giovani di questa vasta area geografica. Parole accolte e condivise anche da monsignor Giuseppe Baturi, segretario generale della Conferenza episcopale italiana – Cei e arcivescovo di Cagliari, che nei giorni precedenti ha partecipato ai lavori nella metropoli francese. Da quella esortazione nasce una lunga intervista rilasciata in esclusiva a VITA.
«Quella del Papa è una visione profetica e di ampio respiro», commenta Baturi. «Il Mediterraneo ha una vocazione: quella di mettere in rapporto civiltà e continenti diversi, l’Africa, l’Asia e l’Europa, religioni e culture diverse. Quindi il Mediterraneo ha come una vocazione a mettere in rapporto alla prossimità. Sappiamo invece che, nella storia, questo talvolta è degenerato in conflitto, lotta, estraneità o indifferenza, se non in inimicizia. La visione del Papa è che, invece, il Mediterraneo può essere un’occasione di pace proprio perché mette in rapporto il mare, popoli, nazioni, culture e religioni differenti. Recuperando l’idea di Giorgio La Pira, una possibile armonia nel Mediterraneo potrebbe avere effetti positivi in tutte le altre parti del mondo. Quindi, in questo preciso momento storico, rappresenta un luogo di crisi che può diventare sede per ricostruire una possibile, nuova convivenza. L’iniziativa, promossa dalla Cei dopo le tappe italiane, ha coinvolto la diocesi di Marsiglia a cura del cardinale Jean Marc Aveline. Proprio questa visione ha indotto il Papa, già dal 2018, a parlare del Mediterraneo come un luogo di accoglienza di persone e tra popoli».
Da anni il Mar Mediterraneo assiste al drammatico esodo di migliaia di persone che fuggono da guerre, miseria, carestia, siccità. E spesso lì vi perdono la vita…
«Il problema dei migranti si colloca dentro questo grandissimo scenario. Perché anche l’indignazione umana verso vite che vanno perdute e la vita di persone che tentano di recuperare per sé e per i propri cari un po’ di felicità, la possibilità di un futuro migliore, diventa per il Papa una visione complessiva e strategica, una visione storica. Si tratta di un tema caro a Papa Francesco e tradotto dalla Cei nel “Consiglio dei giovani del Mediterraneo”, come lascito dell’Incontro dei vescovi del Mediterraneo, che si era tenuto nel febbraio 2022 nel capoluogo toscano e aveva visto in contemporanea il summit dei sindaci dell’area. I componenti del neo costituito organismo provengono da 18 Paesi e, per tre anni, lavoreranno insieme. Pensiamo che questa sia una prospettiva: lavorare sul futuro oggi significa lavorare sui giovani, immaginando che possano instaurare progetti di pace. Il Papa a Marsiglia è venuto a dire che questa prospettiva deve diventare uno stile, ha parlato di una possibile assemblea sinodale e di creare rapporti più stretti tra le Chiese e le realtà del Mediterraneo».
Parlando dei migranti, Papa Francesco ha usato quattro verbi…
«Intanto ha parlato di accogliere. Significa che la sorte dell’Uomo non può lasciare indifferente nessuno, è in gioco la vita e non soltanto l’aspetto della sua qualità. Le immagini di quella madre morta nel deserto con la sua bambina o di quanti cercano la salvezza nel Mediterraneo, non ci possono lasciare indifferenti. Deve suscitare in noi una reazione pienamente umana, di compassione e accoglienza. Il Papa sottolinea che un fenomeno così globale necessita di un’accoglienza altrettanto globale. Vi è la necessità di unire gli sforzi di più nazioni, e in particolare dell’Europa, e in essa di tutti i soggetti: le istituzioni statali, le organizzazioni non profit, il Terzo settore e la Chiesa».
Il Papa ha pure parlato di proteggere…
«Significa che dobbiamo salvaguardare la vita dei migranti durante il tragitto. Dobbiamo pensare a forme di aiuto anche dei Paesi di transito e a forme di legalizzazione dei canali legali d’ingresso e di immigrazione, liberando gli uomini dalla necessità di fuggire per fame, povertà, discriminazione, disuguaglianza o guerra. Proteggere un uomo significa liberarlo dalla necessità. Dev’essere libero di restare là dove ha le radici, oppure di emigrare ma in condizioni di sicurezza. Per fare questo dobbiamo aiutare quei Paesi e cercare di costruire un rapporto con quei governi, quelle società e quelle Chiese, ma anche intervenire sulle cause. In poche parole, occorre una visione ampia e sinergica, non ristretta alle nostre coste. Dobbiamo sentirci corresponsabili dello sviluppo di quei Paesi, per esempio attraverso la cooperazione sociale. La Chiesa italiana scommette ogni anno 80 milioni di euro per progetti di sviluppo nei Paesi bisognevoli. Abbiamo creato un fondo, “Liberi di restare liberi di partire”, per incrementare le opportunità di lavoro in quelle realtà».
Il terzo verbo è promuovere…
«Il Papa sottolinea sempre che l’Uomo dev’essere protagonista del proprio riscatto. Gli immigrati devono essere protagonisti della loro vita, attraverso una valorizzazione delle loro culture, degli stili di vita e delle capacità. E qui entra in ballo il quarto verbo: integrare non significa assimilare, omologare. Non significa rinunciare alla peculiarità di una tradizione anche religiosa. Tra l’altro, più del 50% degli immigrati regolarizzati sono cristiani, per lo più di altri riti o tradizioni. Integrazione significa sentirsi parte di un’unica avventura, di dialogo, amicizia, contaminazione, per costruire una casa comune».
Il Papa a Marsiglia ha anche parlato di un ampio numero di ingressi legali e regolari, sostenibili grazie a un’accoglienza equa…
«L’indicazione è molto semplice: accogliere la vita in pericolo. Non possono esserci ragioni giuridiche o di altra natura che possano giustificare la perdita della vita. È necessario, perciò, che questa accoglienza sia connessa a una capacità di integrazione e protezione, sia in Italia che nel resto d’Europa. Bisogna sviluppare i piani di inserimento: lavorativo per gli adulti e scolastico per i figli. Evitare ghettizzazioni in quartieri separati, in nome di una civiltà democratica. Questo deve avvenire su un piano di legalità, a cominciare dall’ingresso con il riconoscimento dello status giuridico di queste persone, che va accertato. Il fenomeno va saputo gestire, anche attraverso i canali legali d’ingresso».
Dalla narrazione degli ultimi tempi emergono alcune parole chiave: invasione, emergenza, giustizia, indifferenza, legalità. Che cos’altro?
«Aggiungerei il termine conoscere. Perché il fenomeno va conosciuto anche nei suoi numeri macroscopici, altrimenti si generano paura o emozioni non sempre giustificate dai dati reali. Dobbiamo conoscere i Paesi di provenienza, la religione, la vita che conducono i migranti regolarizzati, le cause per cui tante persone affrontano il rischio della vita, quali esperienze hanno vissuto nei Paesi di partenza o di transito rispetto alla dignità dell’Uomo. Questo ci può aiutare a creare legami tra le diverse culture. Mi viene un’immagine, quella del Duomo di Monreale, uno straordinario patrimonio di bellezza che è frutto della manodopera di mosaicisti arabi, architetti normanni e un programma iconografico orientale».
Il governo italiano ha previsto misure più restrittive sugli sbarchi, entrando talvolta in conflitto con l’Unione europea o con Paesi come la Germania. E spesso sono al centro delle discussioni le ong…
«Questo fenomeno non può essere affrontato adeguatamente se non all’interno di un coordinamento di azioni da parte di Stato, Regioni, enti locali, Terzo settore e anche della Chiesa. Sul tema dell’educazione, spesso le organizzazioni non governative hanno creato innovazione o portato soluzioni. Quindi sono indispensabili forme di consultazione e confronto continui. Molte di queste organizzazioni sono collegate alla Chiesa o da essa coordinate, in termini di accoglienza e integrazione. La solidarietà ha bisogno di sussidiarietà. E di dialogo tra tutti i soggetti coinvolti, anche nella proiezione internazionale. La Chiesa offre uno sguardo competente e appassionato in ogni parte del mondo, su questo tema».
All’interno del fenomeno migratorio c’è un altro aspetto preoccupante: la condizione dei minori non accompagnati…
«Un fenomeno in crescita, grave di per sé. C’è poi un problema nel problema, quello delle ragazze, che richiede un’attenzione particolare: non può essere semplicemente risolto attraverso procedure tese a garantire la sicurezza sull’età o le sanzioni previste dagli ultimi provvedimenti legislativi. Richiede innanzi tutto una capacità progettuale e una molteplicità di centri, e connessioni con il mondo della società: penso alla necessità di garantire dei tutori a questi minori ma anche di affidare la gestione delle loro posizioni a team di professionisti (psicologi, giuristi, assistenti sociali) capaci di spendere competenze diverse. Questo è uno dei campi in cui sperimentare quella sussidiarietà che rende solidale il nostro Paese. Parliamo di persone fragili, vulnerabili, che richiedono davvero un’attenzione particolare».
È un problema più culturale o di sensibilità della parte politica?
«Dobbiamo capire che cosa significa per un minore abbandonare la propria famiglia, le proprie radici, per affrontare un viaggio rischioso, doloroso in certi passaggi, con il rischio di morire. Quale risposta possiamo fornire? L’accoglienza, certo, ma dev’essere lungimirante perché fa bene anche a noi saper guardare al patrimonio di futuro, alla ricchezza di cultura, alle energie che un ragazzo può dare. In Italia ha avuto successo un’esperienza di canale legale, i cosiddetti corridoi universitari che hanno permesso di accogliere nelle nostre strutture tanti giovani studenti stranieri, grazie alla collaborazione di Caritas e università. Quando parliamo di minori, dobbiamo sentirci tutti corresponsabili, desiderosi di fare ciascuno la propria parte. Il modo in cui affrontiamo certe situazioni decide il grado di civiltà della nostra società. Anche noi dobbiamo fare percorsi di conoscenza, così le paure vengono meno».
Parlando di minori, sulla spinta emotiva dei fatti di Caivano, una parte della politica punta a provvedimenti più stringenti e punitivi. Un modo per placare la sete di sicurezza di molti cittadini. Non occorre altro?
«La domanda di sicurezza è comprensibile. Lo Stato esiste anche per garantire la sicurezza e la convivenza civile. Torno a ripetere che occorre una visione ampia per intervenire sulle cause, un’accoglienza capace di coinvolgere i territori e le comunità, il saper coinvolgere l’Europa. Perché sono fenomeni che non possono essere contenuti da una legge o da un provvedimento amministrativo. La paura scatena la ghettizzazione, il risentimento e percorsi tendenzialmente violenti».
A proposito di ghettizzazione, in Italia molte periferie sono fortemente degradate. Il Terzo settore e la stessa Cei propongono da tempo progetti e iniziative, ma sono necessari interventi strutturali…
«Da una parte assistiamo allo spopolamento delle aree interne, dall’altra corrisponde un cambiamento del volto delle nostre città. Spesso le periferie non permettono di soddisfare i diritti fondamentali dell’Uomo: non è una soluzione civile ed è gravida di conseguenze. Alcune indagini molto serie ci fanno capire quanto incidano la cultura, la posizione sociale e quindi la povertà, ma anche il luogo di nascita, nella soddisfazione del diritto alla salute. Il tema non è solamente quello della povertà ma della disuguaglianza, che spesso è connesso alla povertà di natura economica e pure a quella educativa. Non devono esserci le periferie ma tanti centri».
Tra i numerosi problemi di cui abbiamo parlato in questa intervista, quale la preoccupa di più al momento?
«Ci sono problemi in termini di verità, di conoscenza della realtà. E spesso la realtà ci vede coinvolti, come occidentali, rispetto a situazioni di crisi. Non possiamo preoccuparci degli effetti senza pensare di essere comunque coinvolti in situazioni di guerre, sfruttamento dei territori e delle risorse naturali di certi Paesi. Un tema che l’estate ci ha consegnato drammaticamente è quello dei giovani, e quindi il tema educativo. Parliamo di situazioni di violenza, spesso in ambiti affettivi e familiari, tra giovani, che mostra incapacità di rispetto reciproco. Parliamo di amore alla vita. Ci sono alcune statistiche impressionanti che provengono dai grandi ospedali prevalentemente rivolti ai giovani, come il Gaslini di Genova o il Bambin Gesù di Roma: ci dicono che spesso, alla violenza verso l’esterno, si associa un dolore muto che si rivolge verso se stessi con atti di autolesionismo o tentativi di suicidio. I giovani hanno bisogno di ascolto e di adulti credibili, capaci di introdurre all’amore alla vita, alla scoperta di un senso, di mobilitare le migliori energie per costruire un mondo migliore. Dobbiamo intercettare il dolore, il disagio, ma anche il desiderio di libertà, di felicità e di vita che è in loro. A darci speranza ci sono il milione e mezzo di giovani accorsi a Lisbona da tutto il mondo per ascoltare un grande vecchio come il Papa, che ha detto loro: “La vita è un bene, usatela per il bene”. Quando la proposta è credibile e il testimone è autorevole, il giovane ascolta e si mette in cammino. Questo deve interrogarci molto».
Foto: arcidiocesi di Cagliari
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