«Non è la stessa cosa educare e trasmettere a persone fiduciose nel futuro e a persone che il futuro non lo vedono o lo temono». Lo sa molto bene Giulia Alberico, insegnante per 30 anni che, prima dell’agognato ma temuto pensionamento, ha raccontato in un distillato di sentimenti il mestiere della scuola.
Una galleria di ritratti dettagliati e fedeli degli alunni adolescenti, fluttuante e viva come il loro complesso mondo interiore, traballante come un sistema di impalcature di vite ancora fragili. Una collezione sorprendente di tic, nevrosi, psicosi, modalità spesso stereotipate di comunicazione. Un punto d’incontro dialettico con l’adulto, dove a ogni declinazione del disagio giovanile corrisponde un antidoto, prodotto della comprensione tutt’altro che buonista e della pragmatica partecipazione del docente.
Ma soprattutto un concentrato di passione, di quel tipo di passione che inchioda al proprio ruolo anche quando ci si sente parte di una categoria di professionisti alla prova, spesso bersaglio del discredito collettivo perché confusa con l’istituzione. Sono lontane e forse divergono la scuola del ministero e quella di certi docenti, dove le passioni educative si costruiscono e si coniugano con l’applicazione e avviene uno scambio vero tra l’intelligenza di tanti adulti e l’attesa tutta concreta nelle domande dei ragazzi.
All’orgoglio molto composto per quest’esperienza umana è rimasta se non altro la forza delle parole, da quelle diventate romanzo (Affinati, Carbone, Lodoli, McCourt, Starnone) a quelle prese in prestito da Paolo Conte, canticchiate dalla prof. Alberico durante la lezione, che imprimono a questa raccolta di racconti il marchio dell’autenticità.
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