“Hanno una funzione liberatoria, sono porte ben oliate che si aprono e chiudono tra intenzioni, tra i gesti”, scrive l’americana Claudia Rankine (il suo Citizen merita una lettura), per citare solo una delle scrittrici incantate dal potere delle parole. Quali sarebbero i gesti a cui si riferisce? Una pulsazione al collo, uno scatto delle mani, un battito di ciglia inconscio: tra questi scivolano le parole e via, noi “ci” diciamo, inconsapevoli.
In questo loro sfuggirci, le parole sanno ferire, fino a uccidere, ma anche curare. Ed è quel che ci interessa ora, perché la stagione lo richiede: urge una terapia per quella sensazione che è miscela di destabilizzazione, minaccia e paura, assunta in dosi prima massicce, poi ridotte ma costanti, omeopatiche, per mesi e mesi. Viaggia nelle nostre vene, per manifestarsi in deformazioni nelle relazioni con gli altri. Chi si rintana, e non torna in ufficio; chi ricorre al tampone fai da te appena ha un inizio di mal di gola per “essere sicuro”; chi vede in sé o nel prossimo soprattutto un potenziale portatore di virus. Ma si può vivere così? O, meglio, quanto a lungo ancora si può vivere così?
Le parole sono porte ben oliate che si aprono e chiudono tra intenzioni
C. Rankine
Ed ecco che entra in partita l’alessitimìa, l’incapacità di dire le proprie emozioni. L’etimologia aiuta: la a sta per privazione, lexis è parola, thymos emozione. Di alessitimia soffriamo quando non riusciamo, o non ci azzardiamo, a trovare parole per esprimere quello che proviamo, decifrare per noi stessi e gli altri le emozioni reali che ci attraversano.
È materia da romantici dello sturm und drang, si potrebbe obiettare. Invece no, perché la gamma articolata delle emozioni non solo si scarica su tutto il nostro corpo (l’ansia sullo stomaco? La rabbia sulle mani? La paura sulle gambe?), ma investe il funzionamento del nostro cervello, e per questa strada ogni ambito del nostro vivere. Emozioni e capacità intellettive si accompagnano sempre, si esaltano o distruggono a vicenda. Se si sganciano sono problemi.
Uno dei casi di studio di Goleman, il guru dell’intelligenza emotiva, si chiamava Elliot. Avvocato di fama e brillante, fu sottoposto a un intervento chirurgico per l’asportazione di un tumore dietro la fronte. Ai test post-operatori risultava in possesso della capacità di intendere, far di conto, ricordare, tutto come prima. Ma non sapeva più dire se provava rabbia o rancore, paura, tristezza o sollievo. Aveva disimparato ad assegnare valore alle diverse possibilità, ogni opzione per lui era neutrale.
Insieme alla capacità di dire i propri sentimenti, aveva perso anche quella di stabilire una gerarchia delle cose, a dare la precedenza alle più importanti per lui e tralasciare le irrilevanti: anche solo fissare un appuntamento in agenda diveniva un’impresa titanica. Il suo ignorare i sentimenti gli impediva di ragionare. Questo perché – si comprese poi – l’intervento chirurgico aveva danneggiato gli organi che permettono il collegamento tra la parte del cervello emozionale e la sede delle capacità intellettuali.
Il povero signor Elliot, nella sua sciagura, ha aiutato gli scienziati a scoprire quanto le due aree (emozionale e razionale) siano connesse, e noi a misurare quanto sia essenziale essere leali di fronte all’alternarsi delle nostre emozioni, riconoscerle per chiamarle per nome e quindi poter iniziare a governarle.
Si tratta di preoccupazione? Definirla implica già mettere in atto una serie di azioni perché non evolva in ansia, che ha questo dono straordinario di autoalimentarsi fino a diventare tirannica e pervasiva.
Si chiama rabbia invece quel che provo? Allora se voglio evitare che mi trascini a far danni, potrei risalire alle cause, valutarle da un’altra prospettiva, disinnescarne la bomba. È invece malinconia, o tristezza?
E via così: se più consapevoli, ci si scopre anche più liberi di comporre un’agenda con priorità chiare e traguardi interessanti. Che è quello di cui avremmo bisogno ora: un'agenda nuova.
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