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Storia di Mario che si fece cento volte padre e fratello

Scomparso nei giorni scorsi, a 94 anni, Mario Zarpellon è stato protagonista di una grande storia di accoglienza in Brianza dove, nella casa di Seveso, con la moglie Gina e coi tre figli, fra il 1980 e il 1993, ha accolto oltre 100 fra bambini e adulti in difficoltà. Fra loro il giovanissimo marocchino Ahmed, che lo ha sempre chiamato "papà". Oggi artigiano muratore, non è voluto mancare alle esequie. Terminata l'accoglienza attiva, gli Zarpellon avevano donato, 20 anni fa, la loro dimora alla Fondazione Maddalena Grassi, per l'assistenza ai fragili

di Giampaolo Cerri

La notizia l’ha data la Fondazione Maddalena Grassi, realtà impegnata nelle cure domiciliari da ormai 30 anni a Milano e hinterland: Mario Zarpellon è morto, domenica scorsa, a 94 anni.

Zarpellon era stato un grande benefattore della fondazione: nel 1993 aveva donato, con la moglie Gina, la casa di Seveso (Mb) dove per anni, dal maggio 1980, aveva fatto accoglienze di adulti e bambini in difficoltà, dando vita, assieme ad altre coppie, anche al primissimo nucleo di Famiglie per l’accoglienza, la grande associazione dedicata all’adozione e all’affido, nel cui atto costitutivo, datato 1982, c’è anche il suo nome.

Storia di una casa accogliente

In quella casa servita ad accogliere per anni e ormai diventata troppo grande per gli Zarpellon, nel 1994 farà ingresso il primo paziente con Hiv da curare a domicilio. L’Aids era ancora, in quell’inizio di anni ’90, una macchina che si prendeva tante vite e la Maddalena Grassi era nata poco prima a Milano, per tentare di rispondere a quel bisogno tragico.

Mario Zarpellon nel giugno scorso, in visita, col figlio Luca, alla sede di Seveso di Fondazione M. Grassi

Mario e Gina non avevano mai pensato di tenere per sé quella dimora costruita con l’aiuto di tanti, – “non la consideravano “loro” ma del popolo di Dio”, recita una nota di Famiglie per l’accoglienza – e guidati da un prete a loro molto caro, Fernando Tagliabue.

Rifuggire il borghesismo, con l’accoglienza

È questa una storia di Brianza, di accoglienza, di inclusione e di fede, perché da quelle parti, certamente a quei tempi, non si davano le une senza l’altra. E brianzolo era anche un altro sacerdote, Luigi Giussani, che era di Desio (Mb), e che sta all’inizio di tutta quella storia. Uno che, proprio in quegli anni, esortava i suoi giovani a che le loro vite non scadessero «in un borghesismo bieco – il cui criterio supremo è l’assicurazione contro il rischio – o nello scialbore di un’insoddisfazione che presto si trasforma in lamento o in accusa agli altri».

Mario e Gina erano veneti, come i tanti arrivati da quelle parti fra gli anni 50 e 60, spinti dalle difficoltà e dalla voglia di lavorare. Solo che questi veneti, vicentini di Cassola per l’esattezza, cattolicissimi come gli altri e come i brianzoli del resto, avevano un’attitudine singolare anche per quella cittadina e quella terra: praticavano un’accoglienza viva, appassionata, estrema si potrebbe dire.

Il Mario e la Gina, pur avendo tre figli, Paola, Luca e Francesco, accoglievano bambini e adulti ini difficoltà già nella loro casa di Meda (Mb). Si era alla fine degli anni ’70 e anche nella florida terra briantea di fragilità da accogliere non mancavano.

Una famiglia accogliente

«Accadeva magari coi figli dei vicini di casa, la cui madre doveva sottoporsi a un lungo ricovero e il cui padre era in forte difficoltà, con una forte dipendenza, ma succedeva con i primi giovanissimi immigrati», spiega la figlia Paola, «poi, incontrando Comunione e liberazione, seppur mio padre fosse responsabile Azione cattolica della nostra parrocchia, questa accoglienza aveva preso un nuovo slancio e, dall’amicizia con don Tagliabue, era nato il desiderio di far nascere la casa famiglia, individuata a Seveso. I miei ci misero i loro risparmi a cui si aggiunsero i tanti aiuti dei moltissimi amici».

Scrivono infatti, pieni di gratitudine, quelli di Famiglie per l’accoglienza: «Una vera e propria casa di accoglienza per adulti e minori, messa in piedi grazie al sostegno di tutta la comunità locale e di varie famiglie amiche».

Zarpellon durante la sua visita alla Fondazione Madallena Grassi di Seveso (Mb)

Un’accoglienza che partirà tumultuosamente lieta, nel maggio del 1980: «Il primo anno eravamo 20 in casa», ricorda Paola, «di lì a poco mio papà riuscirà ad andare in pensione, al minimo, dal suo lavoro di messo comunale: sarà lui a dedicarsi a tutte le esigenze amministrative degli accolti. Lui ad andare in giro per gli uffici dei servizi sociali, perché c’era bisogno dell’oculista per quel bambino, il dentista per quell’altra, del tutore per un altro ancora. Lui che si relazionava agli assistenti sociali, al Tribunale dei minori, perché negli ultimi anni le accoglienze furono soprattutto affidi (la legge 184, che introdusse questo istituto, è del 1983, ndr). Mentre mia mamma si dedicava alla casa».

Ahmed, il figlio marocchino

Una presenza clamorosa, sempre in dialogo con le altre realtà accoglienti del territorio, come Casa Betania dell’Opera di Fratel Ettore, dedicata ai poveri (e dai cui volontari è poi nato anche Progetto Arca), che stava non lontano. «Da Casa Betania arrivò un giorno anche Ahmed, un giovanissimo marocchino», rammenta ancora Paola Zarpellon, «Ahmed visse con noi a lungo, attaccatissimo ai miei, tanto che chiamava Mario “papà”. Lavorando da muratore, si era poi creato una stabilità. L’altro giorno l’ho chiamato per dirgli che “papà stava male” e lui è arrivato alla veglia di preghiera, tra l’altro facendo i salti mortali, non avendo mai preso la patente e non vivendo qua vicino».

Nella basilica di Besana Brianza, dove martedì scorso si sono svolte le esequie, c’era di nuovo anche lui, Ahmed, l’ex-giovanissimo migrante che chiamava padre Mario, l’uomo che all’accoglienza di tante vite, anche della sua, aveva dedicato la vita. Una figliolanza e una paternità autentiche, nate improvvisamente, fra due sconosciuti, un giorno, degli anni ’80, nel cuore della Brianza.

«Non è facile dire quante persone siano passate da casa nostra in quei 13 anni», racconta la figlia, «mio padre diceva spesso “100” e credo che avesse in testa un conto ben preciso».

L’ultima visita a Seveso

Il sito della Maddalena Grassi, nella sezione news, segnala che il Mario era tornato a visitare la sua-casa-mai-stata-sua, il 24 giugno scorso. La sedia a rotelle spinta dal figlio Luca, aveva riattraversato quegli spazi che erano stati “casa” per tante esistenze messe alla prova dalla vita, in qualche modo anche la sua e quella di quella suoi. «Aveva chiesto di potere vedere la nuova cappella, finalmente consacrata e ricavata in quello che era stato il garage della casa: era una sua idea anche quando ci vivevamo e l’aveva trasmessa donandola», spiega Paola.

La casa di Seveso dove gli Zarpellon accolsero più di 100 persone in 13 anni
oggi una delle strutture di Fondazione Maddalena Grassi

Sì perché per Zarpellon Mario, da Cassola (Vi), brianzolo d’elezione, tutto questo irrefrenabile fare buono  – anche accogliere e far da padre al giovane Ahmed, musulmano – era iscritto, inscindibilmente, dentro la fede cristiana.

E la sua vita, di santo minimo, ordinario e sociale, è una storia che la “Chiesa in uscita” dovrebbe raccontare.

La foto di apertura, che raffigura Mario Zarpellon con la moglie Gina, è della famiglia Zarpellon, le altre sono tratte dal sito di Fondazione Madallena Grassi (la foto della casa è dal Report 2020).


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