Welfare
Stop razzismo, la maglia del Monza calcio parla chiaro
Il vulcanico e milionario neopresidente Anthony Armstrong-Emery, attivo nel social housing in quattro continenti, lancia la sfida: "è ora di cambiare mentalità, il mondo del pallone aiuti a sconfiggere chi compie atti ridicoli come il lancio di banane al ministro Kyenge"
“Ero in Italia da poco, ho visto la scena pazzesca del lancio di banane al ministro Cécile Kyenge. Prima sono rimasto sconvolto, poi ho pensato che c’era bisogno di un’azione aggressiva quanto positiva: così ho deciso che sulle maglie della squadra di cui sono neopresidente, l’Ac Monza Calcio, per il 2013-14 ci sarà scritto Stop racism anziché un marchio pubblicitario”. Spiazzante, innovativo, ma soprattutto attento al sociale. Anthony Armstrong-Emery, che a soli 36 anni è a capo di un impero economico, Ecohouse group, dedito alla vendita di case soprattutto in social housing (ha all’attivo progetti da decine di milioni di dollari in Brasile, Singapore e la sua società contra su mille dipendenti), da quando è arrivato la scorsa primavera sta rivoltando la fin troppo tranquilla Monza e finora sta ottenendo un successo inaudito, con la gente che torna a credere nella squadra (sull'home page del sito ufficiale campeggia la divertente foto del presidente in versione 'zio Sam' biancorosso) un tempo blasonata ma oggi, proprio nell’anno del centenario dalla fondazione, ferma in Lega Pro (la ex C1) con notevoli problemi economici. Una rinascita, quella in atto, che comincia dalla partita benefica Playing for children di questa sera mercoledì 4 settembre, che promette lo stadio Brianteo pieno come non mai: piloti di Formula 1 (nel fine settimana c’è il Gran premio), volti noti dello spettacolo e del giornalismo, rosa completa del Monza con le nuove maglie anti-razzismo che si incontrano per raccogliere fondi per due enti, l’associazione Dynamo Camp e il Comitato Maria Letizia Verga che studia e cura la leucemia infantile. Armstrong-Emery, presidente anche del club calcistico brasiliano Alecrim (così come dell’omonima squadra di rugby), che già ha gemellato con il Monza, si è aperto per vita.it a un’intervista senza filtri, dalla quale esce una figura del tutto inedita per il mondo del calcio, quella di un presidente milionario tanto interessato agli affari quanto alla Csr, Responsabilità sociale d’impresa. Chapeau.
Cominciamo dall’introito mancato: non avere uno sponsor sulla maglietta, scegliendo invece il messaggio contro il razzismo, significa perdere un bel gruzzolo, giusto?
Certo. Ma, a conti fatti, lo sponsor del Monza sono io, mi posso permette una scelta del genere. L’obiettivo dichiarato è ribaltare il tavolo: il calcio è un mondo in cui si ragiona a suon di 'money money money', è ora che cambi qualcosa ed entrino altri temi. Il razzismo è un aspetto urgente da trattare, perché va sradicato. Ho voluto stamparlo sulle magliette perché il messaggio deve essere più che chiaro: basta con queste idiozie, bisogna cambiare il modo di porsi, creare un movimento di persone che combatta gli atteggiamenti razzisti. Spero che il mio sia solo il primo gesto di una catena, che coinvolga tante altre persone.
Perché ha scelto proprio Monza?
Sono un caro amico di Clarence Seedorf, fantastico giocatore quanto pessimo imprenditore (il neopresidente ride: l’ex giocatore del Milan non è ben visto in città perché nella sua gestione la società è andata verso il fallimento, tanto che Armstrong-emery l’ha comprata per la cifra simbolica di un euro accollandosi però un debito a dieci cifre, ndr). Monza è un brand noto in tutto il mondo per la Formula 1: in Inghilterra, per esempio, nominare la città è sinonimo di qualità, per questo l’acquisto della società è il primo passo, al quale può seguire l’apertura di una sede italiana della mia società, se ce ne saranno le condizioni.
Anche in Brasile ha compiuto azioni di beneficenza e di impegno sociale, come una forte donazione, lo scorso dicembre, a un ospedale locale. Dove nasce l’attenzione verso il sociale?
Quando ho capito di avere ottenuto il successo economico, mi sono chiesto se stavo avendo successo anche nella vita. La risposta è stata questa: ho fatto i soldi grazie alla società e all’interno di essa, in qualche modo devo ripagarla. Da questo ragionamento parte il mio agire, che vuole essere tanto concreto quanto culturale, con azioni come quella della scritta anti-razzismo sulla maglietta, per intenderci. Faccio quel che posso per contribuire a cambiare il mondo, in meglio.
Il lavorare nel social housing deriva da questo atteggiamento?
Oggi realizzare case legate all’abitare sociale e solidale significa guadagnare tanti soldi, non lo nascondo. In Brasile, come in Asia e presto in Angola, sto portando avanti progetti molto grandi, collaborando con i singoli Stati. Il fatto stupendo è che con questi lavori stiamo realizzando case di alta qualità a prezzi calmierati e destinate anche a fasce basse della popolazione, il social housing è un’opportunità unica per la dignità delle persone.
Si è già fatto un’idea di quanto sia maturo il social housing in Italia oggi?
Sinceramente no: devo mettermi a studiare, per saperne di più, prima di pensare a entrare nel mercato italiano.
Lei è nato a Londra, ha vissuto in Spagna poi in Brasile, ora viene spesso a Monza. Dove vive attualmente?
Ho vissuto i primi anni di vita come child of the world, bambino del mondo, perché seguivo gli spostamenti di mio nonno, allora direttore di Cable and wireless worldwide (una delle compagnie telefoniche multinazionali più grandi del mondo, acquistata nel luglio 2012 dal gruppo Vodafone, ndr). Oggi la mia casa è a Montecarlo, nel Principato di Monaco: è un’ottima base logistica per spostarmi nelle parti del mondo in cui ho interessi. Vivo lì con mia moglie brasiliana, e con due bambini, un figlio e una figliastra. È curioso perché gran parte dei media, quando parlano di me, mi considerano brasiliano, in realtà non lo sono: sono inglese ma anche italiano di quarta generazione, perché i parenti di mia madre hanno origini genovesi. Anche per questo sono legato all’Italia, e onorato di essere presidente di uno storico club di calcio. Forza Monza, insomma: è ora di riportare la squadra ad alti livelli, e di cambiare i connotati di uno sport che deve fare di più per debellare il razzismo.
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