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“Stiamo diventando una società asistemica”: il nodo del 48° Rapporto Censis
Il 48° Rapporto del Censis sulla “Situazione sociale del Paese”, presentato ieri a Roma, tratteggia il profilo di un'Italia non priva di risorse, ma incapace di attivarle. Anomia, astenia, cinismo sono le parole chiave che, alla vigilia del settimo anno di crisi, definiscono un nuovo modello: l'Italia come "asistema" sfaccettato in micromondi incomunicanti. Non è più possibile comprendere e governare il Paese servendosi di "contenitori vuoti", serve una rottura dello schema
di Marco Dotti
Siamo alla vigilia del settimo anno di crisi. Una crisi sistemica o, meglio, "a-sistemica", che, partita sul piano finanziario, ha fortemente intaccato il tessuto connettivo, socio-culturale italiano. Nella percezione e nell'immaginario, non meno che nella dura realtà dei fatti la crisi è diventata una costante ambientale con cui convivere.
Il 48° Rapporto del Censis sulla “Situazione sociale del Paese”, presentato ieri a Roma, offre come sempre spunti interessanti e non scontati alla riflessione e insiste molto sulle tattiche sociali di adattamento a questo nuovo ambiente. Non sembra esserci alcuna strategia attorno a quello che, nel rapporto, viene variamente definito "apatia", "astenia", "cinismo", "stanchezza".
Trame informi per il racconto della crisi
Dopo anni di tentativi, spesso calibrati male e calibrati a vuoto, la ripresa non è arrivata. Questo ha generato un mutamento anche nel "racconto" che, a sua volta, ha generato altre trame. Due di queste trame prevalgono, ma senza contrapporsi in forma dialettica. Casomai si accavallano e, a vicenda, si scavavallano, senza dar luogo a quell'innovazione che potrebbe portare a un superamento di un'impasse che ai più sempra oramai senza via di uscita.
1) da una parte, si legge nel 40° Rapporto del Censis, "ci si adagia, con un pizzico di fatalismo, a introiettare un galleggiamento su antiche mediocrità, senza troppi drammi per le ricorrenti notizie traumatiche, incasellandole con il sorriso dolente del 'ce ne faremo una ragione,' "-.
2) dall'altra parte, invece, "si fugge in avanti moltiplicando incentivi, riforme e manovre volte a spezzare l’inerzia del corpo sociale, a valorizzare qualche vecchio o nuovo cespuglio di vitalità, a recuperare credibilità e peso a livello europeo".
Queste due letture non si integrano, né si confrontano ma, giorno dopo giorno, precipitano, a tutto vantaggio di "stimoli parziali", emotivi, catturati da un apparato mass-mediatico che riduce "la stessa volontà di guardare con attenzione la congiunzione fra una sconcertante rassegnazione collettiva e un’affannosa moltiplicazione dei tentativi per sfuggire ad essa. Ne risulta una società sempre più informe, sghemba addirittura nei suoi pensieri”.
L'analisi della crisi rischia così di passare dal piano descrittivo a quello prescrittivo: anziché far conoscere fenomeni sui quali intervenire e mobilitare risorse di energia e vitalità, finisce per sottoporre a stress – nel combinato disposto di "indignazione/rassegnazione" – le energie rimaste. Ogni discorso critico sulla crisi diventa, pertanto, un moltiplicatore della crisi stessa e un veicolo per quel metaracconto che ha nella rassegnazione il suo referente e il suo fine.
Rriprendere tra le mani il racconto della crisi è, prima di tutto, una necessità etico-pratica. Richiamandosi a Kierkegaard, infatti, De Rita ricorda che non si dà ripresa, senza un'adeguata riflessione sulla base materiale nella quale operiamo. Senza capire l'ambiente – oggi critico – in cui viviamo, pensiamo, lavoriamo, dibattiamo, senza capirlo a fondo, ogni discorso si mantiene nel "frame", nel quadro tracciato da quell'ambiente e finisce per essere un ragionamento tra "pesci rossi", ingnari di essere in una boccia di vetro e non nel mare.
L'a-sistema Italia
Quella Italiana, si legge nel Rapporto, è una "società indistinta e sfuggente". Indistinta, perché non più descrivibile "con forme e figure delineate e significative",sfuggente, perché tutto vaga senza radicamenti". Eppure, queste due caratteristiche (che in qualche modo richiamano l'immagine della società liquida di Bauman) appaiono quasi un riflesso, rispetto a un processo ben diverso: la liquefazione del sistema.
Per anni, osserva De Rita, si è parlato di "sistema" e le declinazione semantiche sono arrivate – liquefacendosi a loro volta – a quel "sistema-Italia" o "sistema-Paese" che, a sua volta, è diventato un cliché accademico e giornalistico per tutto racchiudere e nulla comprendere.
"Sistema" è diventato una metafora – e un approccio – che, come la bolla di cui sopra, ha preteso di creare contenitori vuoti dentro i quali rinchiudere e governare una realtà che, via via, diventava sempre più ingovernabile e sfuggente.
Oggi, questo approccio e questa policy non reggono più: "stiamo diventando una società a-sistemica, visto che non è più governabile con i tradizionali modelli sistemici (piramidali, collegiali, concertativi); visto che le forzature sui modelli tradizionali (in particolare l’accentuata verticalizzazione del modello piramidale) non sembrano ottenere risultati apprezzabili; visto che le catene sistemiche di comunicazione e di comando (top-down e bottom-up) sembrano sempre più sfilacciate; visto che anche i tentativi di attestarsi su più ridotte dimensioni sistemiche (dal federalismo al localismo esasperato) non sembrano per ora trovare spazio; e visto che anche sul piano del fondamento teorico è ormai superato il primato del modello organicistico (che ci aveva guidato dall’apologo di Menenio Agrippa in poi), mentre non riesce a imporre concrete relazioni di governance il modello cibernetico destinato a dominare nei prossimi decenni".
Fatalismo o secessione: il disagio dei soggetti
In una società senza ordine sistemico è ineitabile che i singoli soggetti si trovino a disagio e tentino di atturare strategie adattive con ripercurssioni sul reddito, il risparmio, l'investimento. I soggetti, infatti, non capiscono più "dove si collocano, negli anfratti o nei relitti di un assetto sistemico che essi ritengono comunque necessario; soffrono tutti gli effetti negativi, anche psicologici, della crisi radicale delle giunture sistemiche; e si sentono alla fine abbandonati a se stessi (vale per il singolo imprenditore come per la singola famiglia), in una obbligata solitudine. Il sistema finisce per esser vissuto come cosa estranea e resta solo potenziale oggetto di rancore e di denuncia. Con la conseguenza inevitabile che tale estraneità porta a un fatalismo quasi cinico (tanto, tutto è fuori controllo e nessuno riesce a padroneggiarlo) e talvolta anche a episodi di secessionismo sommerso, ormai spesso presente", specie nelle regioni del Sud.
Questo atteggiamento induce a una visione orizzontale delle proprie pratiche di vita. Oltre questo orizzonte basso – ambiente di proliferazione antropologica della crisi – vi sono i mondi incomunicanti, le "Sette Giare" di cui parla il Rapporto. Sono i mondi:
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a) dei poteri sopranazionali, con la loro crescente cogenza;
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b) della politica nazionale, con la emergente istanza del primato della politica;
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c) del disordinato funzionamento dei ruoli e dei poteri nelle diverse sedi istituzionali;
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d) delle minoranze vitali e della loro crescente estraneità ai destini del Paese;
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e) della vita, squilibrata e difficile, della "gente del quotidiano";
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f) della crescente quota di sommerso sempre più ambiguo;
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g) il tutto descritto e segnato dalla quotidiana incidenza di un mondo della comunicazione connotato pù dal bisogno dell’evento (potenzialmente drammatizzabile) che dall’aderenza ai processi reali della società.
Molti protagonisti di uno di questi 7 micromondi – pensiamo al Terzo Settore – cercano, talvolta con generosità, di mettersi in relazione con gli altri. Forme di degenerazione e perversione – è il caso recente di #mafiacapitale – mostrano come, in assenza di pratiche concrete di "comunicazione", la supplenza diventi una delega perversa.
Ma il sistema di referenza manca: né la politica così come declinata oggi può darsi come passione che si stagli al di là delle passioni tristi o come macro-sistema che ambisca al ruolo di denominatore comune.
Eppure – e questa è la sfida ultima e cruciale – una riconnessione va attuata, attraverso una paziente ricucitura del reale. Uno sguardo strategico è necessario, senza strategia, infatti, non si potrà mai uscire dalla visione tattica di un adattamento cinico, ma comprensibile all'esistente. Ma questa strategia è prima di tutto una questione di sguardo: aderire – senza mai “adattarsi” – a una visione spietata della realtà sembra una necessità etico-pratica ineludibile. Le risorse – che sono sotto gli occhi di tutti: dal tanto decantato patrimonio culturale a quello delle pratiche artigiane – non potranno mai “riattivarsi”, né l'innovazione prodursi se non come mero parossismo retorico, senza questo sguardo sulla vita nuda delle cose e degli uomini.
In questo senso – ma solo in questo senso – la politica può tornare a essere "visione strategica": uscendo dalla "teatrocrazia" e da quella "società dell'opinione" che sono i migliori alleati dell'esistente. Capire l'esistente per cambiarlo e non per riprodurlo all'infinito – in un infinito che significa proliferazione della crisi – è la sfida.
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