Economia
Startup, lo spreco dei soldi pubblici (e cosa fare per evitarlo)
Quando i soldi pubblici finanziano le startup, quel denaro può essere smart money? La risposta di Giovanni De Caro
di Redazione
Il venture capital è considerato smart money, “denaro investito da persone (a) con esperienza, (b) bene informate, (c) esperte” (Investopedia). Un venture capitalist tipicamente possiede almeno uno dei tre requisiti, i più bravi ne hanno almeno due, i migliori tutti e tre.
La domanda è: quando i soldi pubblici finanziano le startup, quel denaro può essere smart money?
Sia chiaro: per definizione una startup non ha i soldi per partire, nemmeno per anticipare costi che saranno rimborsati, per cui smart non potrà mai essere uno strumento che eroga soldi a consuntivo, a fronte di programmi di spesa già rendicontata. Questo è secondo me il vizio di fondo dei contributi a fondo perduto erogati a vario titolo da UE, ministeri, regioni e loro emanazioni. Smart & Start di Invitalia appartiene purtroppo a questa categoria-
In Italia ho contato una decina di finanziarie pubbliche o semi-pubbliche che investono denaro più o meno smart nel finanziamento di startup hi-tech. La mappa non ha pretesa di essere esaustiva e chiedo agli eventuali assenti di perdonare la mancanza. Lo spazio dei commenti è ovviamente a loro disposizione.
Le esperienze più significative, per tradizione e portafoglio investimenti, sono quelle delle grandi finanziarie del centro-nord, Piemonte, Lombardia, Veneto, Friuli e Toscana, che riescono a raccogliere fondi privati da investitori istituzionali e associarli a fondi pubblici per investire direttamente o indirettamente in startup hi-tech. Questo è smart money, perché i team di queste finanziarie sono formati da professionisti del settore che possono fare leva sul network proprio e degli investitori privati che sottoscrivono le quote del fondo, per assistere le partecipate nello sviluppo del business.
Scendendo più a sud lo scenario si complica, non esiste una tradizione consolidata di attività di investimento, tanto meno di denaro pubblico, e ci sono solo pochi pionieri che tuttavia hanno adottato soluzioni interessanti. E altri che ci stanno pensando.
Il nuovo arrivo Starthope è il fondo della regione Abruzzo gestito da Fi.R.A., una finanziaria controllata dalla regione Abruzzo e da un pool di banche. Quattordici milioni di euro riservati a startup abruzzesi o che intendano stabilirsi in Abruzzo, investimenti fino a un milione e mezzo per quote di minoranza, con l’obiettivo di fare dell’Abruzzo una startup region. Un progetto che mi è particolarmente caro.
Filas nel Lazio e Zernike in Emilia-Romagna, in Sardegna e in Sicilia hanno un team interno di professionisti e operano in co-investimento con investitori privati, nel senso che per ogni cento euro che investono in una startup devono trovare privati disponibili a metterne più o meno altrettanti. Zernike è un caso interessante, perché è l’unica società italiana, per quanto io ne sappia, che gestisce professionalmente fondi pubblici in “modalità co-investimento” in più di una regione.
Poi c’è la Campania, casa mia, dove la regione ha appena annunciato un progetto potenzialmente dirompente, quello di investire 150 milioni in capitale di rischio prima di giugno 2015, e ha aperto una call per trovare il modo migliore per farlo.
Volendo tirare le fila di come si può investire denaro pubblico in capitale di rischio, considerando l’esperienza italiana e il mondo del possibile, mi sentirei di proporre questa sintesi, che ho provato a mappare nella figura:
1) Investimenti pubblici in fondi di investimento gestiti da privati, che a loro volta investono in startup (es. dPixel con Finlombarda, il fondo HT con Atlante, Vertis e Principia)
2) Investimenti pubblici diretti in startup. I due casi più interessanti sono quello di Veneto Sviluppo e Fi.R.A.: le due società sono pressoché identiche, entrambe controllate al 51% dalla regione e al 49% da un pool di banche, ma la veneta gestisce un fondo da 35 milioni finanziato per 15 milioni con fondi comunitari e per 20 milioni dai soci, mentre l’altra gestisce un fondo finanziato esclusivamente da fondi comunitari, questo perché il Veneto è più ricco e lì i privati ci mettono la faccia e i soldi, mentre in Abruzzo è evidente quello che gli economisti chiamano il “fallimento del mercato” (zero investimenti senza soldi pubblici)
3) Investimenti pubblici in co-investimento con investitori privati (Filas e Zernike)
Le tre forme hanno vantaggi e svantaggi.
1) Affidare ai privati la gestione dei soldi pubblici può essere virtuoso, ma può spingere i più spregiudicati a investire a ogni costo pur di lucrare commissioni di gestione proporzionali al capitale investito e i più prudenti a investire i fondi pubblici con la propensione di un avaro spendendo molto meno di quanto abbiano a disposizione.
2) Affidare al pubblico la gestione di soldi pubblici è un salto nel buio: un gestore virtuoso saprà trovare il giusto equilibrio fra le aspettative di rendimento di un venture capitalist e la missione “sociale” da compiere, ma un imbroglione può fare danni anche seri.
3) Il co-investimento può essere la soluzione più equilibrata, ma funziona solo se il gestore ha eccellenti capacità di scouting e selezione, un network di investitori privati a prova di bomba e un mostruoso ascendente nei loro confronti.
In definitiva, cosa suggerire ai miei vicini di casa che hanno deciso di investire 150 milioni in un anno e mezzo? Personalmente ritengo che la soluzione n° 2, l’affidamento di soldi pubblici a un gestore pubblico virtuoso, affiancato da un team di professionisti con esperienza consolidata, può essere davvero vincente, perché è l’unica in grado di superare la barriera delle aspettative di rendimento di un investitore privato, senza indulgere alla pratica devastante degli investimenti a pioggia che non hanno presente e non avranno un futuro.
Quel denaro così investito può essere smart, public, social money. E Dio sa se ne abbiamo bisogno.
pubblicato su StartupItalia
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