Economia

Start up sociali, una rivoluzione ancora “segreta”

L'intervento di Roberto Randazzo mette in luce un aspetto ancora poco noto della normativa sulle start up: «In quella legge c'è una svolta cruciale: lo spostamento dell'attenzione dalla natura dell'ente all'oggetto della sua attività»

di Roberto Randazzo

Il Decreto Crescitalia bis (D.L. 179/2012), convertito in legge lo scorso dicembre, ha introdotto nel nostro ordinamento, tra le altre cose , le start-up innovative.
Più che di un nuovo modello societario si tratta di una  “qualifica” che possono acquisire le società di capitali, costituite anche in forma di cooperativa, purché abbiano quale  oggetto  sociale  lo   sviluppo,  la produzione e la commercializzazione di prodotti o servizi  innovativi ad alto valore tecnologico.
L’articolo 25 del Decreto elenca tutti i requisiti che devono possedere le start-up innovative. Fra quelli obbligatori, la maggioranza  delle  quote  o  azioni  deve essere detenuta da persone fisiche, non deve essere svolta attività di impresa da più di quarantotto mesi, la sede principale deve essere in Italia, non devono essere distribuiti utili etc. etc.. Interessanti anche i requisiti alternativi, quali ad esempio, la percentuale di spese in ricerca e sviluppo che deve ammontare ad almeno il 20% e l’impiego di almeno un terzo di personale in  possesso  di  titolo  di  dottorato  di ricerca.

Tuttavia, senza entrare nel merito delle singole disposizioni contenute nel provvedimento, mi interessa focalizzare l’attenzione sulle start-up innovative “a vocazione sociale”,  che, oltre a presentare tutti i requisiti citati, operano in via esclusiva nei settori indicati all’articolo 2 comma 1 del D. Lgs 155/06, che disciplina le imprese sociali ex lege.

Un mezzo passo? Il solito provvedimento ecumenico per mettere tutti d’accordo? Una nuova “impresa sociale”, doppione della precedente? Beh, forse dal punto di vista pratico il decreto non rivoluzionerà la geografia del social business, però agli occhi del giurista che da tempo frequenta questa materia, contiene uno spostamento dell’elemento che qualifica la natura “sociale” di questa tipologia di impresa, passando dalla natura giuridica dell’ente al suo oggetto sociale.
 
Infatti, per la prima volta il legislatore esce dalla rigida divisione che separa gli enti senza scopo di lucro dalle società commerciali, spingendosi a qualificare come “sociali” enti con un vincolo di non distribuzione degli utili solo temporaneo.
 
L’infuocato dibattito che ha accompagnato la proposta di modifica del D.Lgs 155/06 (il famigerato emendamento che prevedeva la possibilità per le imprese sociali ex lege di distribuire parzialmente gli utili), sembra avere generato una diversa attenzione verso questa tematica, che prima o poi dovrà essere affrontata, senza dover necessariamente scimmiottare modelli anglosassoni.

Al riguardo, il Decreto Crescitalia bis, ha impresso un’accelerazione rilevante a tali ragionamenti e mentre all’interno del terzo settore, si discuteva sul “come” e sul “perché” (non) intervenire, il legislatore sembra avere aggirato il problema, approvando una norma che, scompagina i giochi.

Le start-up innovative (e quindi anche quelle a vocazione sociale), non possono distribuire utili per un periodo di 48 mesi, dopo sì. La norma prevede, inoltre,  agevolazioni fiscali a favore di chi investe nelle start-up innovative, incrementandone la portata (ed è questo il punto centrale della riflessione) per le quelle a vocazione sociale. Detto diversamente, il decreto premia fiscalmente chi investe nelle start-up innovative a vocazione sociale, legittimando dunque un sistema che guarda ai risultati generati dall’impresa e non esclusivamente alla sua qualificazione giuridica, spostando l’ottica dal “chi sei” a “che cosa fai” aprendo, quindi, la strada alla costituzione di veicoli in grado di coniugare una utilità sia economica che sociale.

Forse, prendendo spunto anche da questo nuovo approccio, è arrivato il momento di avviare una riflessione seria, concreta e davvero innovativa sul futuro del social business in Italia.

17 centesimi al giorno sono troppi?

Poco più di un euro a settimana, un caffè al bar o forse meno. 60 euro l’anno per tutti i contenuti di VITA, gli articoli online senza pubblicità, i magazine, le newsletter, i podcast, le infografiche e i libri digitali. Ma soprattutto per aiutarci a raccontare il sociale con sempre maggiore forza e incisività.