C’è un quadrante, nel rapporto “Attività gratuite a beneficio di altri” che Istat, Fondazione Volontariato e Partecipazione e CSVnet hanno pubblicato oggi: in ascissa posiziona il tasso di volontariato totale e in ordinata il monte ore dedicato al volontariato nelle 4 settimane di svolgimento dell’indagine. Il grafico ci dice alcune cose molto semplici: che coloro che si impegnano di più sono quelli che vivono in buone condizioni economiche, sono laureati e hanno un età fra i 55 e i 74 anni. Quelli che si impegnano di meno invece hanno caratteristiche più o meno opposte: giovani fra 14 e 24 anni, giovani-adulti fra i 25 e i 34, persone che vivono condizioni economiche di disagio o scarse e che hanno titoli di studio inferiori.
Non è proprio una buona notizia per un paese che vede molti dei suoi indicatori economici e occupazionali in costante discesa e che non riesce a dare ai giovani le giuste prospettive come un paese civile e normale dovrebbe fare. La prima conclusione quindi è questa: giusto magnificare i numeri e la solidità del volontariato, ma bisogna capire che esso non nasce dal niente, ma è frutto di processi sociali positivi, di comunità coese e di situazioni diffuse di benessere. Condizioni che il nostro tempo sta deteriorando. Il volontariato non riguarda solo i volontari, ma ha a che fare con quanto tutto l’intero sistema Paese riesce a fare per incentivare l’impegno gratuito per gli altri.
Dai dati emergono alcune delle tendenze che il volontariato dovrebbe combattere perché rappresentano dei blocchi al suo sviluppo e alla sua innovazione: il fatto ad esempio che su 100 volontari che hanno ruoli di dirigenza nelle organizzazioni, 73 siano uomini e che ci sia poco ricambio nei posti di responsabilità come altre ricerche hanno già ampiamente dimostrato.
Gli uomini sono più presenti in tutte le forme di volontariato organizzato e strutturato, ma sono le donne a fornire un monte ore in media più alto e ad essere più presenti nelle attività di aiuto non organizzato. Chi ha più tempo libero si dedica di più al volontariato, è ovvio, ma ritirati dal lavoro e casalinghe sono quelli che hanno l’intensità più alta. Probabilmente in futuro, e ne abbiamo già scritto molte volte, ci saranno sempre più persone con poche risorse e molto tempo, come fare per chiedere e dare loro qualcosa che sia utile per tutti?
Nel report c’è anche un dato che ci auguriamo che i giornalisti che si occupano di chi “fa del bene” leggano: Il 49,6% delle persone fa volontariato per sentirsi meglio con sé stesso, il 41,6% di aver allargato le reti sociali e il 28,1% di aver cambiato il suo modo di vedere le cose. Quindi quando si fanno quelle domande un po’ banali, magari raccontando delle storie, su cosa ci spinge ad impegnarci per gli altri ricordiamoci che gli italiani hanno già risposto e le motivazioni sono quelle: niente di eroico, molto di concreto. Si dà e si riceve non tanto per qualcosa, ma perché quel qualcosa ci fa stare meglio e ci apre la mente. E lo si scopre facendolo.
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