Bosnia-Erzegovina

Srebrenica, quei 8.500 assassinati un monito per la comunità internazionale

Luglio è il mese in cui si commemora il genocidio di Srebrenica che, però, i serbi non considerano tale nonostante gli indubitabili verdetti della Corte di Giustizia Internazionale e del Tribunale Penale per i Crimini di Guerra nella ex Jugoslavia derubricandolo a uno dei tanti massacri commessi da ambo le parti durante il conflitto bosniaco

di Paolo Bergamaschi

Tanti convenevoli e troppe frasi di circostanza la scorsa settimana a Bruxelles al termine della riunione fra l’Alto Rappresentante per la Politica Estera dell’Ue Josep Borrell e Borjana Kristo, la Presidente del Consiglio dei Ministri della Bosnia-Erzegovina. Era da due anni che le parti non si incontravano per fare il punto sull’applicazione dell’Accordo di Stabilizzazione e Associazione che dal giugno del 2008 regola le relazioni fra Bruxelles e Sarajevo. Nel frattempo sono avvenuti parecchi fatti di rilievo. Il più importante è senz’altro lo status di Paese candidato all’adesione che il Consiglio Europeo ha concesso alla Bosnia nel dicembre scorso. A scanso di equivoci, anche se si tratta di un primo passo, il cammino dello stato balcanico verso la piena inclusione appare ancora complesso e accidentato.

Sono 14 le priorità elencate dai tecnocrati europei che il governo di Sarajevo è chiamato ad affrontare prima che le due parti possano sedersi attorno al tavolo per aprire ufficialmente i negoziati. Fra queste spiccano la riforma costituzionale, la lotta alla corruzione, il rafforzamento dello stato di diritto e la riforma della pubblica amministrazione. Nell’ottobre dello scorso anno si sono svolte le elezioni generali che dopo lunghe trattative hanno partorito a gennaio un governo di minoranza troppo debole per ottemperare alle richieste dell’Ue.

Foto di Paolo Bergamaschi

Come ulteriore aggravante che intorbida un quadro già di per sé fosco, inoltre, bisogna aggiungere la perenne minaccia di secessione che arriva dalla Republika Srpska, una delle due entità che compongono l’ingombrante e macchinosa architettura istituzionale dello stato bosniaco. Pochi giorni fa, infatti, il parlamento di Banja Luka, il capoluogo dell’entità serba, ha deciso di sospendere l’applicazione delle decisioni della Corte Costituzionale ponendosi, di fatto, al di fuori dell’ordinamento giuridico del Paese. Luglio è anche il mese in cui si commemora il genocidio di Srebrenica che, però, i serbi non considerano tale nonostante gli indubitabili verdetti della Corte di Giustizia Internazionale e del Tribunale Penale per i Crimini di Guerra nella ex Jugoslavia derubricandolo a uno dei tanti massacri commessi da ambo le parti durante il conflitto bosniaco. Mi trovavo a Sarajevo quando cominciarono ad emergere le prime testimonianze su quello che era realmente accaduto in quella città i cui abitanti avrebbero dovuto essere protetti da un contingente delle Nazioni Unite male equipaggiato e limitato da inadeguate regole di ingaggio. Il comandante olandese della missione consegnò il controllo della zona a Ratko Mladic e alle sue milizie in buona fede, anche perché non aveva alternative. Poi i paramilitari serbi foraggiati da Belgrado divisero la popolazione in due gruppi: da una parte donne, anziani e bambini, dall’altra gli uomini ai quali fu concesso di marciare disarmati verso Tuzla, zona protetta, distante un centinaio di chilometri. Non ci arrivarono mai. Sulle colline, tra i boschi, li attendevano i miliziani di Mladic che li abbatterono con le raffiche dei mitragliatori. Furono 8500 i caduti, vittime dei criminali di guerra serbi, dell’impotenza delle Nazioni Unite, della paralisi decisionale europea e di una parte del movimento pacifista, quella ideologica, che chiudeva gli occhi in nome della presunta neutralità e della non ingerenza.

Il monito di Srebrenica

Dieci anni dopo, nel luglio del 2005, partecipai nel memoriale di Potočari, la località nei pressi di Srebrenica dove sono sepolti quei morti, al decennale della commemorazione (nella foto di cover e qui sopra). “Mai più” fu l’appello commosso e inequivocabile dei leader religiosi e politici convenuti alla cerimonia. Confesso che la tragedia di Srebrenica mi brucia ancora sulla pelle. Mi sento, per certi versi, corresponsabile di non essere riuscito a convincere chi poteva dell’urgenza di un intervento della comunità internazionale a protezione dell’inerme popolazione bosniaca. Forse è per questo che quando guardo al conflitto ucraino non posso evitare di tracciare paralleli fra Slobodan Milosevic con i suoi luogotenenti, i criminali di guerra Radovan Karadzic e Ratko Mladic, e Vladimir Putin con i suoi (quasi) subordinati Yevgeny Prigozhin e Ramzan Kadyrov. Mi sfugge la logica di chi pensa che per arrivare alla pace occorra indebolire la parte aggredita. In Bosnia, purtroppo, non ha funzionato. Sono in troppi a soffrire di vuoti di memoria.               


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