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Srebrenica: 20 anni dopo, il futuro è in cooperativa
L'11 luglio del 1995 la piccola città bosniaca al confine con la Serbia fu il teatro del primo genocidio dalla seconda guerra mondiale. Ci siamo tornati oggi e abbiamo scoperto come musulmani e serbi possono di nuovo lavorare gli uni insieme agli altri
Nei pressi di Srebrenica sorgono Osmače e Brežani, due piccoli comuni costituiti da un arcipelago di borghi adagiati su un altopiano tra i 900 e 1.000 metri di altitudine. Siamo vicinissimi al confine con la Serbia. Sono trascorsi esattamente 20 anni dal genocidio dell'11 luglio 1995.
Nel 1991 Osmače aveva 942 abitanti e Brežani 273. Fino al 2002 non vi ha abitato più nesuno. Poi negli ultimi 10/12 anni piano piano i due centri hanno ricominciato a respirare. Molti giovani della diaspora (bambini negli anni Novanta) sono tornati a casa. Hanno ripopolato i borghi abbandonati riappropriandosi della terra e iniziando a coltivarla: prati per il fieno, frumento, grano saraceno, frutteti, lamponi, patate, alcune delle colture reintrodotte. Agricoltori e allevatori hanno gettato le basi per una rinnovata convivenza tra serbi e musulmani, partendo dalla concretezza di un’economia di sussistenza. Anche con l’aiuto di alcune Ong, cooperative e fondazioni italiane. Vent’anni dopo uno dei massacri più efferati della storia, Srebrenica è un posto che merita di essere vissuto. «I gruppi misti inter-etnici, per piccoli che possano essere, sono le piante pioniere della cultura della convivenza», scriveva Alexander Langer nel suo tentativo di decalogo per la convivenza inter-etnica.
Le piante pioniere di Osmače e Brežani sono loro: Muhamed Advic (musulmano), Velibor Rankic (serbo) e gli altri cento che intrecciano ogni giorno le loro vicende individuali a quelle della piccola comunità cui appartengono. «Per me in un certo senso è facile, per questioni anagrafiche», racconta Muhamed, «ho meno ricordi degli anziani». Gli fa eco Velibor, anche lui legato al luogo delle sue origini e proiettato al futuro: «Nessuno è tanto orgoglioso del proprio villaggio quanto lo siamo noi. Le nostre patate, i nostri agnelli, i nostri artigiani erano i migliori da queste parti, si sapeva. Spero di riportare la popolazione giovanile al villaggio, perché provi a vivere del suo lavoro». Muhamed e Velibor non sono soli. Serbi e musulmani cercano di dissodare un terreno rimasto per troppo tempo incolto e hanno un progetto: si chiama “Seminando il ritorno”. Si affidano al grano saraceno, che cresce bene nelle valli montane, ma anche alle piante officinali e alla trasformazione dei prodotti (essicazione, molitura del grano e degli altri cereali). Tra i partner del progetto la onlus di Padova Agronomi e forestali senza frontiere, l’associazione di Cooperazione e Solidarietà e la cooperativa agricola El Tamiso (entrambe di Padova), il Centro Pace del Comune di Venezia, la Tavola valdese.
A fondovalle ecco un’altra bella realtà. Nata da un’idea italiana nel 2003, in dieci anni la cooperativa Insieme è passata da 10 a 500 soci. Lo stabilimento di trasformazione dà lavoro a 28 persone, vedove e reduci del genocidio. Produce lamponi, more e ribes: 130mila vasetti di confetture, 180mila bottiglie di succhi di frutta e 350 tonnellate di prodotto congelato l’anno. Ha realizzato un vivaio e possiede alcuni frutteti sperimentali con una capacità annuale di 150mila piante. Donne ortodosse e musulmane, fra Bratunac e Srebrenica, hanno deciso di coltivare, insieme, la terra e il futuro nella valle della Drina. I frutti congelati vengono esportati in molti Paesi europei, le marmellate e i succhi solo in Italia. Li distribuiscono le Coop Lombardia, Nordest e Adriatica, Altromercato, una catena di negozi bio e alcuni Gas.
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