Volontariato

Sposare trend e responsabilità. Una scarpa perfetta

Un’azienda familiare, che supera i 150 milioni di euro di fatturato e vende 4 milioni di calzature in tutto il mondo. Tutto questo seguendo una filosofia rigorosa.

di Carlotta Jesi

Maiorca, marzo Camper è un?azienda locale con più di 3mila punti vendita in 30 Paesi del mondo. Da Palma di Maiorca, dove è nata 28 anni fa, a Tokyo. Una contraddizione in termini? No, a giudicare dai new global, Anita Roddick in testa, che marciano contro il divario tra Nord e Sud del mondo con il suo logo ai piedi. E soprattutto dal numero di scarpe che Camper – contadino in catalano – ha venduto nel 2001: 3,5 milioni di paia, per un totale di 145 milioni di euro. Globalizzazione positiva, la chiama qualcuno. Ma Lorenzo Fluxá Rosselló, suo fondatore e proprietario, preferisce parlare di sentido comun. “Oggi la cosa più rivoluzionaria che esiste è avere buonsenso”. Inteso come ricerca della semplicità, della qualità e dell?eliminazione di tutto ciò che è superfluo o inutile. Compresa una quotazione in Borsa, spiega Fluxá: “I tempi sarebbero maturi, ma molti dicono che per un?azienda familiare come la nostra potrebbe rivelarsi un errore”. Un lusso da imprenditore già troppo di successo? R&D = innovazione e buon senso Piuttosto una filosofia (se riduci i processi produttivi, guadagni tempo ed energia) che Fluxá mette in pratica in tutte le fasi del suo business. Dall?ideazione di nuovi modelli di scarpe, testati al computer realizzando prototipi virtuali molto più economici di quelli veri, alla produzione delle camper vendute nel mondo, interamente delegata all?esterno dell?azienda. Negli anni 70, a piccoli laboratori di artigiani dell?isola di Maiorca. A partire dagli anni 80, quando la domanda ha cominciato a crescere, anche a fabbriche fuori dalla Spagna: oggi il 35,14% della produzione si realizza nelle isole Baleari, l?8,11% nella Penisola iberica e il resto in Italia, Portogallo, Marocco e India. Un?espansione in Paesi poveri con manodopera a basso costo, ma al tempo stesso con una lunga tradizione nel campo della lavorazione della pelle, che in Camper ha portato all?elaborazione di un codice etico di comportamento basato su questi principi: no all?utilizzo di manodopera infantile, pagamento dei salari ufficiali vigenti nei Paesi produttori e rispetto delle loro leggi. Il monitoraggio della sostenibilità socio ambientale dell?azienda è affidato a Jordi Bigues, giornalista ambientalista, attivista e tra i fondatori di Greenpeace Spagna, che verifica periodicamente le condizioni di lavoro in tutte le fabbriche di Lorenzo Fluxà. Ma non solo: da sei anni questo ?ispettore? di Greenpeace lavora per far passare a ogni livello aziendale un altro valore etico molto importante: “Sostenibilità oggi significa reinterpretare la sigla R&D: non più ricerca e sviluppo, ma innovazione e buon senso”. Marketing mediterraneo Possibile, viene da chiedersi, con una produzione che dal 1999 al 2000 è cresciuta del 54,69% e tra il 2000 e il 2001 del 31,99% fino a quota 4 milioni 11mila paia di scarpe? A Inca, il quartier generale dell?azienda sull?isola di Maiorca, giurano di sì. La prova, dicono, è ai piedi del capo del Centro di ricerca Camper, Guillermo Ferrer: due scarpe, comode come ciabatte, realizzate con un singolo pezzo di lana organica che sono la realizzazione pratica di tutta la filosofia Camper. “Sono wabi”, spiega Ferrer, “parola giapponese che vuol dire rustico, nel senso di semplice, essenziale, modesto e senza artificio. Come la lana di cui sono fatte, usando il pelo delle pecore che popolano le campagne di Maiorca. Come i processi industriali che servono per costruirle: 4 invece dei 40 solitamente necessari per produrre un paio di scarpe. Sono ergonomiche e anatomiche. Non un prodotto, ma un servizio pensato per chi resta giornate intere in ufficio senza fare grandi movimenti e calza scarpe che stringono inutilmente il piede”. Il fatto che le wabi si facciano pubblicità da sole in giro per Maiorca ai piedi del loro creatore invece che su poster e giornali, risponde a una precisa strategia aziendale: il passaparola. “Il nostro è sempre stato un marketing mediterraneo”, spiega il fondatore dell?azienda. “Funziona di bocca in bocca, col passaparola. Comunichiamo seguendo il cuore e la voglia di divertirci più che le ricerche di mercato”. Un esempio: lo slogan Se non ti servono, non comprarle stampato sui sacchetti in cui vengono consegnate ai clienti le scarpe Camper. Un boomerang? Forse, ma in puro stile camperologico. Ossia ironico, semplice, diretto. Lo stile o, meglio, l?atmosfera che l?azienda cerca di costruire in tutti i suoi 54 negozi monomarca: templi del self-shopping in cui il cliente ha accesso diretto alle scarpe (può toccarle, provarle e rimetterle a posto) studiati apposta per ridurre le distanze tra chi vende e chi compra e per offrire un?esperienza di vita oltre che un prodotto. E che si respira sfogliando le pagine di The Walking Society (Tws). In teoria un catalogo di scarpe. In pratica, il giornale della società in cammino. “Verso un modo più semplice, più sostenibile, più rispettoso della natura”, spiega la direttrice di Tws, Cristina Barchi che ambienta i diversi numeri del suo giornale nei Paesi del Mediterraneo inteso come crocevia di nuovi modelli di sviluppo locale. Dalla Banca etica italiana, ai nuovi indici francesi di misurazione della ricchezza con cui sostituire il Pil. Cosa c?entrano questi concetti e la lotta per una globalizzazione partecipata con l?azienda di Lorenzo Fluxá? I giardini commestibili di Maiorca Per capirlo, a Maiorca, ti portano da Recamper: un grande magazzino di fianco al quartier generale dell?azienda in cui si vendono le scarpe che non passano i test di qualità Camper a 20, 30, 60 euro invece che 100 o anche 150 euro al paio. Re sta infatti per riciclato, e il suo obiettivo è semplice: i 50 milioni di pesetas raccolti ogni anno nei negozi Recamper di Maiorca, Madrid e Barcellona servono a finanziare le attività filantropiche dell?azienda. Qualche esempio? “I giardini commestibili”, spiega Cristina Barchi: “Piccoli orti costruiti dentro a scuole, condomini e nei quartieri difficili. È un progetto in cui crediamo molto: forniamo il know how e i fondi per costruire un orto da cui ricavare cibo genuino. Ma non in un?ottica assistenziale: dopo un anno ritiriamo i fondi, chi ha fatto un orto deve continuare con le proprie gambe”.


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