Welfare

Sport, per dialogare e muoversi anche dietro le sbarre

Dalla collaborazione tra Sport e Salute e Fondazione Irti nasceranno nuovi spazi di attività fisica e motoria per il benessere dei detenuti. Nel convegno dedicato all’occasione, la lezione del professor Forti sul tema del rieducare: “Come nel rugby la palla ovale non si sa mai dove cadrà, anche l’essere umano non si sa mai dove può andare e merita rispetto”

di Nicola Varcasia

“Lo sport ha una straordinaria capacità di trasmettere il senso di comunità”. Lo ha affermato Vito Cozzoli, presidente di Sport e Salute, la società pubblica dedicata allo sviluppo dello sport nel nostro Paese, annunciando la firma di una convenzione con la Fondazione Nicola Irti, realtà impegnata in opere di carità e di cultura, con un’attenzione speciale per i detenuti.

“Una comunità è tale quando si prende cura di tutti i cittadini, anche di coloro che hanno sbagliato e come, dice la Costituzione, vanno rieducati e reinseriti nella società: il fondamento del diritto di punire è fondato sull’obbligo di rieducare”, ha rilanciato il presidente Natalino Irti, specificando come “lo sport si iscriva a pieno titolo nel processo rieducativo”.

Perciò dimentichiamoci per un attimo la rovesciata di Pelé in Fuga per la vittoria e chiediamoci: è possibile rieducare chi sta scontando una pena in carcere attraverso lo sport? Lo stesso ordinamento penitenziario, tra i cosiddetti “elementi del trattamento dei detenuti”, infatti, cita le attività sportive solo dopo l'istruzione, la formazione professionale, il lavoro, la partecipazione a progetti di pubblica utilità, la religione e le attività culturali e ricreative. Si può fare di più?

Per contribuire a valorizzare l’enorme potenziale di capacità rieducativa che compete allo sport, l’accordo tra le due organizzazioni ha l’obiettivo di migliorare il benessere psico-fisico dei detenuti, incrementare l'offerta sportiva e formativa negli istituti penitenziari con un programma affidato a tecnici e allenatori qualificati, rendere gli istituti penitenziari autonomi nelle attività sportive attraverso la realizzazione di percorsi di formazione e la dotazione di strutture.

Alla firma di questo intenso programma è stato dedicato il convegno dal titolo “Rieducare, lo sport come strumento di dialogo” organizzato il 7 luglio scorso allo Stadio Olimpico di Roma, nel quale sono intervenuti oltre ai presidenti delle due organizzazioni, il Capo del Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria, Carlo Renoldi e il professor Gabrio Forti, ordinario di diritto penale e criminologia all’Università cattolica del Sacro Cuore di Milano, a cui sono seguite le testimonianze della Federazione Baseball e Softball e Rugby, tra le realtà che realizzano attività motoria, fisica e sportiva nei penitenziari.

Tutti gli interventi si sono succeduti sullo sfondo del comma 3 dell’articolo 27 della Costituzione a cui l’intero incontro faceva riferimento: “Le pene non possono consistere in trattamenti contrari al senso di umanità e devono tendere alla rieducazione del condannato”. Lo sport, si può intuire, ha molto da dire e da dare in questo quadro e il professor Forti, con un itinerario incentrato sul tema del rieducare, lo ha chiarito anche dal punto di vista storico e culturale.

Già nell’ottobre del 1948, ha esordito Forti, pochi mesi dopo l’entrata in vigore della Costituzione, Piero Calamandrei, in un discorso alla Camera dei Deputati che riprendeva a sua volta un intervento di Filippo Turati del 1904, aveva usato accenti rimasti proverbiali: “In Italia il pubblico non sa abbastanza e anche qui molti deputati fra quelli che non hanno avuto l’onore di sperimentare la prigionia [fascista, ndr] non sanno che cosa siano certe carceri italiane. Bisogna vederle, bisogna esserci stati per rendersene conto. Vedere, questo è il punto essenziale”. Questo invito a “vedere il carcere”, ha proseguito Forti, va oltre la pur essenziale necessità di sapere come vivono i detenuti. Collegandosi alle idee dell’antropologo Marcel Mauss, Forti ha osservato come esso abbia “un rapporto di scambio reciproco con il mondo della cultura e del sociale, assorbendone fermenti sia negativi che positivi”.

Tra quelli negativi figura, ad esempio, la pena di morte, che continua ad esistere non certo per motivi giuridici, ma solo per un intreccio di interessi: “Non serve a prevenire i reati, non c’è nessuna prova che diminuisca gli omicidi e, per definizione, non serve a rieducare. È tenuta in piedi dagli interessi di uomini politici che la sbandierano per le loro politiche di law and order, di media attirati dalle storie dei condannati in attesa di giudizio e di opinioni pubbliche che sordidamente si illudono che avere una pena di morte permetterà di controllare ciò che le nostre società contemporanee cercano di rimuovere, cioè la morte e la malattia”.

Ma, in questo influenzarsi reciprocamente tra sistema delle pene e società, emergono anche scambi positivi. E qui arriviamo alla portata antropologica dell’articolo 27 della Costituzione italiana: “Ci dice che ogni persona che commette un crimine può cambiare, può essere diversa da quella che era nel momento in cui l’ha commesso. Con l’espressione del celebre umanista Pico della Mirandola de hominis dignitate, ci trasmette un’idea quasi rinascimentale di un essere umano che ha una potenza della metamorfosi”. Non è un principio semplice da accettare, basti pensare al tema dell’ergastolo ostativo, ma qui il discorso si allegherebbe troppo. Il professor Forti, però, ha tenuto il punto: “Antropologicamente parlando, il progetto dell’articolo 27, perfino rispetto agli autori di crimini estremi, ripetuti e continuati ammette la possibilità di cambiare e quindi pone allo stato il dovere di impegnarsi in questa direzione”.

Ed eccoci al “trattamento rieducativo”, l’espressione un po’ infelice con la quale l’ordinamento penitenziario si riferisce alle attività all’interno delle carceri, come se il detenuto fosse “un oggetto da trattare”. Forti ha ricordato che “fra gli elementi del trattamento c’è anche l’attività sportiva, sebbene venga messa quasi per ultima, dopo il lavoro, le relazioni esterne, la cultura e l’attività ricreativa. Una collocazione nata forse da un pregiudizio perché lo sport coinvolge il fisico, la forza, la competizione e ha quindi anche un elemento di conflittualità. Questa sorta di esitazione che l’attuale normativa manifesta nei confronti dell’attività sportiva rispetto ad altri elementi del trattamento si lascia superare sulla base di un modo giusto corretto e forse essenziale di intendere lo sport”.

Questo modo giusto e corretto per Forti è simbolicamente rappresentato dal rugby. Non soltanto perché per andare avanti si deve passare all’indietro e questo invita a non “inorgoglirsi troppo della posizione di cui si dispone”. Oppure perché nel rugby il terzo tempo, lo stare insieme, è il momento più importante perfino dell’aver vinto. Ma soprattutto perché, ha concluso Forti “il rugby si serve di una palla ovale, che non si sa mai dove cade. Allo stesso modo, non si sa mai dove l’essere umano può andare: il rispetto per la sua libertà è l’opposto della visione positivista di un soggetto determinato che agisce sulla base di meccanismi coatti. Ma la libertà comporta anche dei rischi, così come la fiducia nella possibilità di rieducarsi. Questa imprevedibilità segnala che noi tutti dobbiamo a volte rassegnarci alla fatalità e non farci prendere dalla tentazione di trasformare le fatalità in giudizio o in un dito indice puntato con troppa disinvoltura in segno di biasimo”.

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