Spirale del silenzio o del vivere senza teorie

di Marco Dotti

Nel nostro tempo, il destino delle teorie è di non servire a nulla. Viviamo meglio senza teorie, ossia senza schemi e quelli che ci sono non bastano a contenere tutto, non servono per inquadrare il mondo, non interpretano il passato, non decifrano il presente, non accendono il futuro e forse per questo finiscono la loro breve corsa in quei veri e propri cimiteri del pensiero che sono i manuali per l’università.

Certamente, c’è stato un altro tempo, nemmeno troppo lontando – anni Settanta – in cui tutto doveva rientrare in qualche astrusa teoria, altrimenti era fuori dal gioco: società, famiglia, comunicazione, economia, eccetera eccetera eccetera. Andavi al bar a chiedere un caffè e non ti rispondevano “Lo vuole macchiato o lungo?” ma se lo preferivi alla Galvano della Volpe o alla Mao Tse Tung oppure se ti attestavi su un servizio dì ortodossia classica. Tempi finiti nella forma – e meno male.

Oggi, però, nella sostanza il processo si è semplicemente rovesciato e  non differisce di molto in quanto a esiti primi e ultimi: un senso di vuoto e, al contempo, di saturazione, di spossatezza e  iperattività, di desiderio e immediata morte del desiderio.

Perdiamo teorie, come un tempo perdevamo il sangue. Al posto delle teorie ci sono guru e guretti di ogni sorta. Appaiono sullo schermo, twittano, rimbalzano per ogni dove. Scrivono libri – già, libri: il luogo chiave della leggibilità e dell’illeggibilità del mondo, il supporto stesso di ogni teoria ridotti a ferma asta per l’ombrellone. 

Ieri, oggi, sembriamo come quei bambini che davanti a un cubo o a una sfera, quando si tratta di infilarli nello spazio giusto, mancano completamente la figura: la sfera qui, al posto del cubo, il cubo di là, al posto della sfera.

Schiere di psichiatri, di sociologi, di mafiologi, di tuttologi sempre gli stessi, sempre a dire che così non va, che qualcosa non funziona più, sempre lì, pronti a sabotare tutto. Non sanno costruire nulla, ma sanno benissimo come si distrugge. Profeti del cattivo infinito, li avrebbe chiamati Hegel. Li hanno formattati a dovere, infilati ovunque, raccomandati, foraggiati, tesserati, laureati, postlaureati, iscritti all’ordine del santo nulla. Insomma, pedine del ben noto Principio di Peter che prevede: elevare ciascuno al primo grado della propria incompetenza e aspettare che una società crolli. Magari come braccianti sarebbero ottimi, ma fanno i giornalisti. Magari i lavavetri sarebbero ottimi giornalisti, ma fanno, appunto, i lavavetri. L’alibi del cervello serve per mettere in fuga i pochi neuroni rimasti.

Esseri vuoti, senza teoria, agiscono a dovere, come gli androidi di P. K Dick. Simulano persino empatia, talvolta piangono dinanzi a una miseria. Forse è proprio questa – ah, la teoria! – la spirale del silenzio, di cui parlava già trenta anni fa Elisabeth Noelle-Neumann. Davanti al «coro dei lupi ululanti», le opinioni isolate non contano. Non siamo soli, non siamo minoranza, ma il capolavoro dei lupi è di farcelo credere e, poco per volta, renderci soli davvero. Ci fanno diventare agnelli.

Giornalisti, opinionisti, scrittori in vena di rossore civile, scapoli, ammogliati, gay repressi e repressi che non hanno nemmeno la scusa di essere gay: tutti lì a dirci che qualcosa non va. Come se non  fossero anche loro tra i produttori del disastro.

Ma perdiamo teorie, continuiamo a perdere teorie. Come un tempo si perdeva il sangue, dopo una ferita. Oggi si ha l’impressione che nemmeno il sangue sia più quello di una volta. Troppa televisione, troppo internet, troppo tutto. Troppo assembramento, troppa solitudine, troppo rumore, troppo silenzio. Troppi lupi, troppi agnelli.

Perdiamo teorie. E poi le teorie – quelle poche che restano, quelle poche che da sempre valgono – perderanno  noi. E finirà la festa.

 


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