Welfare
Spazi pubblici senza più socialità
Quali sono oggi gli “spazi che contano” nella città contemporanea? La domanda apparentemente semplice la pone con insolita onestà Cristina Bianchetti, professore di urbanistica del Politecnico di Torino nel suo libro dal titolo omonimo, appena pubblicato da Donzelli Editore. Anna Detheridge prova a rispondere sul numero del magazine di Aprile
Quali sono oggi gli “spazi che contano” nella città contemporanea? La domanda apparentemente semplice la pone con insolita onestà Cristina Bianchetti, professore di urbanistica del Politecnico di Torino nel suo libro dal titolo omonimo, appena pubblicato da Donzelli Editore. Non si tratta certo di passare in rassegna gli spazi “rappresentativi” della metropoli, i distretti degli archistar per intenderci, ma di comprendere, tra le pieghe di una crescente retorica della partecipazione e della condivisione, esattamente cosa succede oggi nelle città e nei territori sempre più in crisi.
La domanda che sottende tale riesame di come funziona la città è, in fondo, cos’è oggi lo spazio pubblico? Se fino a qualche decennio fa, e dunque ancora in epoca moderna,
lo spazio pubblico teneva insieme rappresentanza e spazio sociale della convivialità, oggi lo spazio pubblico può essere luogo di rappresentanza altamente sorvegliato e controllato, mentre gli spazi di socialità quando esistono sono sempre più frammentati, discontinui, luoghi talvolta votati alla fruizione, talvolta riempiti dall’angoscia, dall’inquietudine di fronte al diverso, o desertificati.
Una veduta del teatro pubblico a La Lira, Barcellona (anche nella foto di copertina) la pista di atletica e Forest Park a Girona
Dalle pratiche ludiche del politically correct, dell’orto esibito, del flash mob, alle pratiche creative degli artisti nel riuso di spazi interstiziali, tali spazi relazionali costituiscono manifestazioni di valori, nuove forme di socialità: piccole pause di sollievo in un tragitto sostanzialmente solitario, ma che sono ben lontane da quelle forme di socialità teorizzate e descritte da Arendt, Habermas o Sennett tipiche dell’epoca della modernità e che avevano il significato di “unirsi in nome di speranze comuni”…
Mosso da associazioni o da società di real estate, poco cambia, lo spazio pubblico in questo senso è più vivace che mai, il teatro di mille effervescenze. Ma sono anche luoghi in precario equilibrio tra condivisione e aggressività, dove i corpi si danno oppure svaniscono, luoghi di divertimento e di animazione bottom up, ma che in fin dei conti sono anche un modo per non soffrire la realtà come imposizione o come rinuncia di fronte a un potere lontano; o ancora come gli spazi che le persone si prendono autonomamente e sotterraneamente in barba a ogni autorità secondo la visione di De Certeau.
Ciò che Cristina Bianchetti cerca di mettere a fuoco, credo, sono i limiti e le condizioni imposte alla progettazione e i modi in cui quest’ultima può sottrarsi al proprio confinamento, non tanto dando forma all’urbe, ma attraverso i modi della relazione, ricreati nello spazio. Esperienze o gesti più che spazi, che cercano di farsi un varco umano di “consapevole utopismo” di fronte alla chiusura impositiva e intimidatoria di ciò che lei chiama la dilagante “riduzione funzionalista”. Un’occupazione dello spazio che forse, vorrei azzardare, possa derivare soprattutto dal grande squilibrio tra investimenti di real estate sempre più astratti e globalizzati, pezzi di città quali oggetti di scambio e di tesaurizzazione da parte di giocatori globalizzati totalmente disinteressati ai costi della negoziazione e ciò che produce sul suolo.
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