Famiglia
Spaesati. Un reportage sulle anime morte del terremoto
Il nuovo lavoro di Ferracuti e Marrozzini racconta di una specie di “natura morta”: la vita degli uomini, vita che sembra essersi arrestata e arresa. Pochi volenterosi proseguono a tenere aperta una bottega o a curare, da medici, i malati. Ma per quanto tempo? E con quale prospettiva?
Dalle parole e dalle immagini del nuovo libro di Angelo Ferracuti e Giovanni Marrozzini, Gli spaesati. Reportage dalle zone del terremoto del Centro Italia (EDIESSE – Liberetà, Roma 2018), fa fatica a emergere altro che desolazione e angoscia. E' un lungo reportage dal deserto, un deserto fabbricato dagli uomini e poi reso visibile, per così dire, dagli ultimi terremoti dell'Italia centrale.
L'Appennino è un po' ovunque e già da parecchio tempo in completo abbandono: resistono (ma non si può resistere senza uno scopo, per sempre!) in pochi, soprattutto anziani. In Umbria, nelle Marche, nel Lazio, l'“Italia interna” si è trasformata poi in un unico panorama sconciato dal sisma. E' stata per qualche tempo – e lo diventa ancora, di tanto in tanto, in occasione degli anniversari o di eventi giudiziari – il palcoscenico per una orrenda narrazione televisiva; vi si è impressa la violenza delle telecamere, con un accanimento che ha tormentato chi viveva in piccole frazioni già isolate o nascosto in valli che nessuno conosceva.
Questo libro parla di una specie di “natura morta”: la vita degli uomini sembra essersi arrestata e arresa. Pochi volenterosi proseguono a tenere aperta una bottega o a curare, da medici, i malati. Ma per quanto tempo? E con quale prospettiva?
Il terremoto ha portato allo stesso tempo soldi e isolamento: gli appalti, i vari progetti di rinascita, i nuovi centri commerciali e ogni altro tipo di speculazione, sembrano delle astronavi che, senza preavviso, atterrino in posti dove nessuno le vuole e ne capisce il senso. Non resta che una natura morta, mentre l'altra natura torna a impossessarsi con rapidità di ogni spazio, facendo arrivare topi, lupi, cinghiali. Secoli di civiltà faticosa sono ridotti a calcinacci, vinti dal silenzio e dalla noia dei mesi seguiti all'emergenza. È questa una “fine del mondo”, in cui i superstiti si sentono, appunto, “uccisi dal silenzio”.
Non può essere un caso se, nelle parole di tanti, traspaia concreto il rischio di “cadere nella follia”, di rinchiudersi nella depressione. Più di tutto colpiscono i racconti di tanti montanari costretti a trasferirsi negli alberghi sulla costa: soluzione “pratica” e, senza dubbio, meritoria sotto tanti punti di vista, date le condizioni: ma è difficile immaginare l'imbarazzo di sentirsi in gabbia, in località turistiche vuote perché in pieno inverno, chiusi in una stanza, vivendo ancora di più l'abbandono e l'estraneità a tutto.
Cosa resta, per queste “anime morte”, dell'economia della ricostruzione? Quanti saranno ancora vivi alla fine di un'opera che, forse, sarà ormai inutile?
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