Economia

Sotto il vulcano nascono i kreppa sons

La ricetta islandese contro la recessione

di Christian Benna

Ovvero i figli della crisi. Tutti under 30, molti con figli. Sono loro
l’architrave della rinascita di Rejkyavik. Ma scordatevi la finanza. L’economia che richiama a casa gli emigranti è quella civile Finché c’è crisi, c’è speranza. Finnur la racconta così l’ultima saga islandese, quella della bancarotta dei miracoli. I conti pubblici dello Stato nordico sono ancora sull’orlo del naufragio e di ripresa c’è solo una flebile traccia. Ma a cavalcare l’onda di un mondo fatato in rovina ci sono i kreppa sons, i figli di quella crisi che è precipitata loro addosso in una notte nell’ottobre 2008. «È andata bene così», filosofeggiano Finnur e compari, senza nostalgia per l’epoca d’oro dell’Islanda prima della classe.
Per capire il buon umore basta collegarsi a Gommit.com. È il sito internet di Finnur Magnusson, uno dei tanti biondi di Rejkyavik, neanche trent’anni, con moglie (bionda pure lei) e un paio di pargoli (immancabilmente teste gialle) al seguito, e amministratore delegato di Agora, una web company dove l’età media dei 20 dipendenti è under 25. Il manager in maglietta, calzoncini e infradito «perché l’estate c’è anche in Islanda», ha spedito online una mappa interattiva delle nuove società islandesi, le start up spuntate come funghi nella capitale.

Baby aziende crescono
Sono circa una sessantina le baby aziende, non male per una città di 120mila abitanti. Non si occupano di industria pesante, né di pesca come tradizione vorrebbe o finanza, ma sono frutto della creatività lasciata libera dopo la “dittatura della finanza”. Dal 2000 al 2008 le tre principali banche del Paese, tutte fallite e oggi nazionalizzate, si sono gonfiate di titoli tossici tanto da valere oltre 100 volte il Pil nazionale . «In quel periodo», ricorda Sigga, giornalista freelance, «appena usciti dall’università i ragazzi entravano subito in banca. Il salario medio di un lavoro in campo finanziario valeva quattro volte quello di un ricercatore o di un insegnante. Era una generazione di finanzieri che pensava solo a fare soldi indebitando all’inverosimile consumatori e imprese. Ora tocca rimboccarsi le maniche, magari guadagnare un po’ meno, ma con una logica di sviluppo di lungo termine».
Le piccole imprese nordiche non nascono spontaneamente, ma vengono coltivate con cura nei laboratori non profit nati anch’essi dopo la crisi. Uno di questi è il ministero delle Idee, un casermone che si affaccia sul porto, un tempo (fino a tre anni fa) sede di una fabbrica di mobili, dove invece oggi si è radunata la società civile che non si arrende. È il movimento dal “basso” che sta travolgendo la politica (per sindaco gli abitanti di Reykjavik hanno scelto un ex comico) e che ha trovato in Gurdjon Mar Gurdjonsson il suo promotore. A novembre ha organizzato l’Assemblea nazionale, che vuole trasformare in un organo costituzionale: un gruppo di 1.500 persone, 1.200 sorteggiate e 300 in rappresentanza di aziende e istituzioni, che ha discusso dei problemi del Paese.

I ministri “volontari” delle idee
Sono una trentina i ministri, tutti senza portafoglio e tutti volontari: piccoli imprenditori, insegnanti, attivisti, designer. Unico comun denominatore: poca fiducia nel settore privato come in quello pubblico. Il parlamentino si riunisce una volta a settimana, discute di economia e politica, cerca di trovare soluzioni concrete a problemi concreti. E soprattutto fa consulenza ai giovani imprenditori che bussano alla porta del ministero delle Idee. Una scrivania, un computer. Si inizia così. Pochi euro al mese per le spese di connessione e riscaldamento. E i ragazzi provano a fare impresa.
Per compagno di banco Arnar, che è un informatico, ha un attore, e a due passi c’è Indipal, emigrante indiana, che è neurologa. Un caffè, due chiacchiere, i consigli di Gudjon Mar Gudjonsson, e degli altri ministri delle idee, nascono così le baby aziende. C’è Mind Games, giochi per rilassare la mente – «meno stress, meno giochi di Borsa», dicono i fondatori. Poi c’è Medizza, altra start up che della crisi ha fatto un business: manca partecipazione politica della società civile? Ecco che nasce un decoder per parlare in diretta col parlamento. Ci sono votazioni in corso, l’utente può esprimere il proprio parere o disaccordo, prima ancora di venir chiamato alle urne. La Bjork economy ha creato Gogoyoko, l’iTunes islandese, per scaricare tutte le novità, e non solo, dell’universo sonoro nordico. Gudrun si è inventata una linea di bare ecologiche, «perché anche il dopo vita deve essere sostenibile»; altri una società di microcredito o una coop per le adozioni a distanza. In questi giorni Gunnar, un giovane regista che era scappato a gambe levate dalla crisi per un anno sabbatico in India, è tornato in Islanda. Per raccontare il day after, il Paese che non si solleva eppure sopravvive.

La profezia di Krugman
Perché a guardare le statistiche in Islanda c’è poco da ridere. Il Pil viaggia sotto il 6% nel 2009, e la crescita da prefisso telefonico (0,6%) del 2010 non fa ben sperare. Eppure secondo Paul Krugman, economista liberal americano, premio Nobel 2008, il miracolo c’è. Anzi, in un editoriale pubblicato sul New York Times si è spinto a dire che la peggiore crisi finanziaria della storia è stata un toccasana. Perché il tracollo ha costretto a voltare paginA «smettendo di seguire i cattivi consigli di coloro che la crisi l’hanno creata».

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