Per restare solo alle ultime settimane o comunque pochi mesi: sono state presentate le linee guida G4 del GRI-Global Reporting Initiative, lo standard di fatto che ormai si segue un po’ in tutto il mondo per realizzare bilanci sociali e di sostenibilità. Si sta discutendo il draft del report integrato pubblicato dall’International Integrated Reporting Council, che tra una settimana chiude il periodo di consultazione. E l’Ue ha lanciato una proposta di direttiva per rendere obbligatorie informazioni non-finanziarie per le società medio-grandi.
Tutte cose interessanti e assolutamente buone. Direi quasi esaltanti per chi segue la csr da tempo. Esaltanti perché dimostrano, come dire al di là di ogni ragionevole dubbio, che la csr è ormai stabilmente in agenda. E che si sta facendo molto, su più livelli, per far emergere nelle imprese quelle informazioni socio-ambientali, di sostenibilità, Esg, non o extra-finanziarie o come le vogliamo chiamare, che sono indispensabili per valutare in modo adeguato un’impresa in ottica csr. Epperò…
Tempo fa mi è capitato di fare una bella chiacchierata con un caro amico, anche lui un po’ da sempre col pallino di questi argomenti, e un importante imprenditore di una società hi-tech. Davanti a un buon pranzo, si parlava di csr, di come si valuta, di chi la valuta, di modelli di rating, di dove si pone l’asticella tra il buono e il meno buono e via discorrendo.
Poi un flash da parte dell’imprenditore, che non avevo conosciuto prima ma che mi pareva sul pezzo, come si dice. Dice che nella sua azienda difficilmente vede persone che non sorridono sul lavoro. Che sì, capiterà magari quando lui non è proprio lì vicino, ma che se dovesse dire di una costante della sua azienda, del clima che si respira, gli viene in mente per prima cosa il sorriso.
Bene. Io in quell’azienda non sono mai stato di persona, un giorno son curioso di andarci, se riesco. Ma mi fido, per cui credo a quello che mi è stato detto. Anche perché non c’erano secondi fini, si chiacchierava allegramente e spensieratamente, senza alcuna certezza che ci si sarebbe mai rivisti. E infatti non ho più rivisto quella persona.
Ciò detto, quando lui ha lanciato quel flash, ho iniziato a pensare: quale rating intercetta un sorriso? Non ne conosco uno, manco lontanamente. Ma credo che un sorriso possa valere più di mille rating, di mille bilanci sociali fatti bene o anche benissimo, di mille policy formalmente perfette e anche ben applicate. Forse non c’è l’indicatore per il sorriso, ma penso che ci si dovrebbe pensare. Tecnicamente è un intangible, una cosa che sfugge a misurazioni quantitative, ma forse è la prima che viene in mente quando si pensa a un’azienda in cui si è stati per un po’ di tempo. O magari solo per un incontro.
Morale del discorso: non ce l’ho, la morale. Ma penso che tutto quello che si sta facendo in ambito csr – è molto e ben venga, perché dieci-quindi anni fa ce lo saremmo sognato, noi “matti” che dicevamo che non era una moda ma un modo di essere, che sarebbe diventato il modo di tutti, prima o poi, inesorabilmente – dovrebbe essere considerato con una gran dose di buon senso, diciamo pure di filosofia. Con umanità, insomma. Ecco, un rating affidabile perché umano. Quello che riesce anche a intercettare le persone che in un’azienda sorridono.
Ah, ora forse mi viene anche la morale (ci provo, almeno). Per vedere quel sorriso ci si può fidare, come ho fatto io, o si può andare a verificare di persona. Cioè essere vicini, essere lì, vederlo coi propri occhi, quel sorriso. Vederlo col proprio corpo, quasi toccarlo da quanto è vicino, altro che intangible. Ai rating di csr che conosciamo, allora, che sono indispensabili ed è un bene che continuino ad essere perfezionati, ma che spesso non possono che essere elaborati a distanza, ad esempio perché riguardano società che operano dall’altra parte del mondo, si potrebbe tentare di aggiungere altri tipi di rating: dei rating di vicinanza, che prima di valutare passano da un’esperienza d’incontro, da un rapporto tra persone. Magari proprio da un sorriso.
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