Formazione

Sopravvivere ai fondamentalismi

Dialogo tra Marco Revelli e Johan Galtung sulle ragioni della pace nell'era dei due terrorismi. Sia Bush che Bin Laden invocano Dio.

di Marco Revelli

Ho incontrato Johan Galtung a Torino il 23 maggio, presso il Centro Sereno Regis, poco prima di una sua importante conferenza sul tema Globalizzazione, terrorismi e guerre: le alternative della nonviolenza. Galtung (nato nel 1930 a Oslo, Norvegia) è uno dei più celebri sociologi contemporanei a livello mondiale. È anche una delle figure di primo piano del pacifismo nonviolento. Ha fondato nel 1959 l?International Peace Research Institute di Oslo, e nel 1964 il Journal of Peace Research. Attualmente è Professor of Peace Studies all?University of Hawai, all?Universität Witten/Herdecke e all?European Peace University. Dopo l?11 settembre ha pubblicato un saggio di grande interesse: The Usa, the West and the Rest of the World after september 11/october 7 2001. Questo è il testo della nostra conversazione. Revelli: Lei ha dedicato molti studi alla globalizzazione. Che rapporto c?è tra quella che chiamiamo globalizzazione e la situazione di guerra creatasi dopo l?attacco dell?11 settembre? Galtung: C?è una buona data di partenza, ed è il 3 maggio 1493, un evento storico. Allora il papa Alessandro VI, con la bolla Inter Coetera, ha benedetto Cristoforo Colombo e ha detto che tutti i territori scoperti ricadevano sotto la giurisdizione spagnola senza limitazioni. L?anno dopo ha fatto una piccola revisione, perché lui era spagnolo, e gli hanno ricordato che c?era anche il Portogallo, e allora è nato il trattato di Tordesillas, in cui comunque viene ribadito il concetto di giurisdizione senza limitazioni, che non aveva precedenti nel diritto internazionale. Sono seguiti cinque secoli, che io credo abbiano pesato moltissimo, che permettono di vedere l?attacco dell?11 settembre come un tipo (certo perverso e per noi inaccettabile) di reazione contro questa struttura delle relazioni internazionali fondate sul diritto degli occidentali a una giurisdizione illimitata. Revelli: Possiamo dire che da allora è incominciata la lunga marcia della globalizzazione, della fagocitazione del mondo da parte degli occidentali? Galtung: Esattamente così. E questo processo è sostanzialmente dialettico. C?è stata una lotta, in passato, negli anni 60, e si chiamava lotta di liberazione, che in buona parte ha vinto. Poi noi siamo di nuovo penetrati, con l?assistenza tecnica, con l?egemonia economica. Ora direi che sta crollando anche questo altro tipo di dominazione e di occidentalizzazione, e ci sono moltissimi che hanno paura Revelli: Questo tipo di analisi incrocia e converge con le tesi proposte in un recente libro, Empire, di Negri e Hardt? Galtung: Io non sono tanto entusiasta di questo libro e posso capire perché abbia avuto tanto successo negli Stati Uniti: perché dice che quello attuale è un ?sistema generale?, non c?è una ?colpa? diretta degli Stati Uniti. Non c?è un ?centro?. Io credo invece che questo sistema generale esista, ma che abbia un centro in Washington. è chiarissimo. Questo non lo si dice, lì; e francamente non va bene. Rimuove completamente una cosa, il potere militare degli Stati Uniti. Questo potere, con 67 interventi militari dal 1945 a oggi, ha sempre avuto la caratteristica di mantenere con la forza questa struttura di classe e di potere. Non aveva niente a che fare con la democrazia e con la cultura: da questo punto di vista sono molto ?aperti?, nei confronti dei mussulmani immigrati, per esempio?La tolleranza culturale negli Stati Uniti è una delle ragioni per cui io amo gli Stati Uniti. Detesto la loro politica estera e amo il Paese. E questo non è per niente schizofrenico. Io non sono antiamericano, ma sono anti Washington, sì. Revelli: Sul terrorismo. Mi ha colpito in questo suo saggio la simmetria che stabilisce tra i due discorsi contrapposti tra il terrorismo da cui origina l?azione distruttiva e lo Stato terroristico che risponde. Possiamo approfondire questa uguale struttura del discorso? Galtung: Il linguaggio ha una struttura religiosa, in primo luogo. Nel linguaggio di Bin Laden, è evidente, ma bisogna leggere bene Bush, perché anche nei suoi discorsi compare molto spesso Dio. Non credo che Bush dovrebbe avere il permesso di parlare così. Nei discorsi come candidato alla presidenza, Bush ha detto che il primo filosofo politico della storia umana si chiama Gesù Cristo. E questo è esattamente lo stesso discorso di Bin Laden, il quale ha detto che il primo filosofo si chiama Mohamed, e che Mohamed ha ricevuto il messaggio del Padre, come Gesù Cristo. In entrambi c?è il riferimento a un popolo scelto e a un Paese sacro. Questo è molto evidente per gli americani: bombardare gli Stati Uniti non è lo stesso che bombardare un altro Paese qualsiasi. Questo è un tipo di presenza divina nel mondo: bombardare lì è un atto contro Dio. Ed è esattamente la tesi di Bin Laden. Revelli: Ha a che fare con il puritanesimo? Galtung: Sì, ha direttamente a che fare col puritanesimo. È interessante sapere che il puritanesimo era una setta protestante, ma non l?unica; ne hanno avuto anche altre, tra cui una che si chiamava arminianismo e che era tutto il contrario: l?idea intorno cui si organizzava, il loro credo era che Dio è amore, è anche nell?atto di amore, e che nel familismo c?è la relazione stretta tra noi, come relazione umana, e che lì si rivela Dio. Revelli: L?opposto del puritanesimo che tende a rimuovere il corpo. Galtung: Certo. Per il puritanesimo, almeno per quello emigrato negli Stati Uniti, il nemico non era tanto la Chiesa cattolica. Per il puritano americano il nemico era piuttosto l?indiano, in cui hanno visto la sintesi del peccato: la wildness, la dimensione naturale selvaggia, e anche la relazione umana stretta. In loro ha prevalso la sessuofobia. Quando un inglese andò a vivere con gli indiani, e fu accettato, fu perseguitato, incarcerato, punito dai suoi connazionali. E questo è molto simile al Wahabismo. Tra puritanesimo e Wahabismo, l?interpretazione ?esagerata? dell?Islam prevalente in Arabia Saudita, c?è una costruzione concettuale molto simile e una forte simmetria. E questa è la ragione per cui i loro discorsi sono intercambiabili. E per cui oggi Bin Laden salva Bush. Revelli: Questo era molto evidente il 7 ottobre quando sono apparsi tutti e due in televisione. Galtung: «Dio è con noi», per tutti e due. E «chi non è con noi è contro di noi». Con Bin Laden che deplora di avere tutti questi infedeli, e Bush che denuncia terroristi in tutto il mondo. Hanno incominciato molto male, chiamandosi «santi», come già avevano fatto i puritani del Seicento, quelli appunto di The Revolution of the Souls di cui ha scritto Michael Walzer. Revelli: In questa simmetria tra puritanesimo fondamentalista americano e wahabismo islamico, l?irrazionalismo è un tratto comune. Cui mi pare lei contrapponga un terzo tipo di pensiero rigorosamente razionale, che decostruisce sia l?uno che l?altro. Galtung: Nella mia definizione di razionalità c?è una dimensione articolata, che passa per il cervello e anche per la bocca. O per la mano. Il discorso irrazionale non passa per il cervello e nemmeno necessariamente per la bocca. Fa appello a una dimensione profonda. Metaforicamente, al cervello dello stomaco. Emozioni. È questa esattamente l?idea di essere un popolo scelto, di avere un Paese sacro, ecc. ecc. Emozioni. Revelli: Veniamo alla struttura del discorso pacifista, come discorso razionale… Galtung: Non c?è necessariamente una posizione moralista. La premessa è molto pragmatica: che la violenza non funziona. Semplicemente non funziona. Che la soluzione militare non esiste. Ho avuto moltissime discussioni con militari, e per me è molto facile, conoscendo la storia, dimostrar loro che quella militare è una falsa soluzione. Basta poco, 2 anni, per verificarlo. Perché, dico loro, quando avete fatto lo scontro armato, la cosa che sempre succede è la drammatizzazione del conflitto e il sogno, da parte dello sconfitto, della vendetta. O meglio, della rivincita, che è diversa dalla vendetta: è il desiderio di cambiare le cose, di rovesciare l?esito dello scontro. Questa è la reazione del vinto. Poi c?è una seconda ragione: la reazione del vincitore. Ha avuto la possibilità di avere la gloria, e allora cercherà l?occasione di avere una gloria numero 2, numero 3, numero 4? E l?appetito cresce. È quello che hanno fatto gli americani. Hanno subìto un disastro in Vietnam, e allora il complesso: non siamo invincibili. Poi col crollo dell?impero sovietico, si sono montati la testa, e si sono moltiplicati gli interventi. Bene: dall?assunto che la violenza non funziona, non segue necessariamente però che la nonviolenza sempre funzioni. Anche su questo occorre avere una posizione empirica. Ghandi è stato senza dubbio il messaggero numero uno, ma è possibile aggiungere anche qualcosa al suo insegnamento. E questo è ciò che stiamo facendo come organizzazione. Si tratta di aprire un campo nuovo, che è quello della ricerca della pace con mezzi pacifici. Abbiamo esaminato tutti i cambiamenti di potere nel mondo dopo il 1945 senza elezioni: sono più di 600. Questo gran numero di transizioni è stato diviso in due grandi categorie: transizioni violente e transizioni non violente. E si è visto che nel tempo sono sempre più numerose le transizioni non violente. La nonviolenza allora è molto più diffusa di quanto non si creda. Ma soprattutto emerge che dopo un cambiamento non violento è molto più probabile che venga l?organizzazione. Dopo un cambiamento violento è molto più probabile che venga il disordine. La democrazia non è perfetta, ma è una buona forma, e in genere segue cambiamenti non violenti. Anche questo è pensiero pragmatico. E io desidero capire meglio i fattori che sono rilevanti per un cambiamento non violento. Revelli: è molto chiaro come il pensiero pacifista oggi può contrastare gli opposti terrorismi, ma come si può oggi concretamente ?mettersi in mezzo? nella guerra che è esplosa? Galtung: Ci troviamo tra due forze terroristiche: terrorismo e terrorismo dello Stato. Terrorismo di Al Queida, se Al Queida esiste (non è mia abitudine utilizzare la Cia e l?Fbi come fonti di verità) da una parte, e dall?altra parte gli Stati Uniti, la maggior potenza militare che ci sia. Allora vi è la resistenza. E io credo che ci siano quattro punti di resistenza, e quando questi si incontrano, abbiamo vinto. E io credo anche che questi punti abbiano una formula comune, che è la razionalità: una reazione contro il fondamentalismo. Se incominciamo dal mondo mussulmano, c?è una reazione molto forte contro Bin Laden e il wahabismo, e naturalmente in questo c?è anche una difesa del 99% dell?Islam: «questo non è Islam». All?altro lato, naturalmente, abbiamo la critica contro la politica degli Stati Uniti: io sto leggendo la stampa araba e c?è una critica totale. Abbiamo cioè una critica religiosa e una critica politica. Nel nostro mondo occidentale non c?è esattamente la stessa distinzione. Abbiamo la critica non governativa, come nei movimenti nati dopo Seattle: critica che deve essere rigorosamente nonviolenta. Mi è stato chiesto cosa penso io di questi movimenti, della possibilità di violenza e di antiamericanismo al loro interno, e io ho detto che per la questione della violenza è indispensabile che i manifestanti nonviolenti controllino la violenza, e quando c?è un possibile focolaio di violenza immediatamente 200 non violenti intervengano e circondino i violenti, senza lasciare entrare la polizia, controllando con strumenti nonviolenti, i violenti. Autocontrollo. Sull?antiamericanismo: questa espressione è idiota. Denota mancanza di intelligenza, perché una cosa è la relazione con l?America e il suo popolo, un?altra cosa il giudizio sulla sua politica estera. E sulle critiche a Bush sono totalmente d?accordo. Infine, numero 4, le reazioni dei governi. Mentre Blair appare in qualche modo una marionetta, i governi tedesco e francese hanno assunto una posizione più ferma e hanno detto che alla prima bomba contro l?Iraq si sarebbero dissociati. Ci sono molte cose che non si trovano sulla stampa italiana (il governo più sottomesso a Bush è il governo italiano), ma questa è la loro posizione. Ora, se queste quattro linee per ora indipendenti si incrociano (critica religiosa e politica al fondamentalismo e al terrorismo nel mondo islamico, opposizione alla guerra di movimenti e governi in Occidente), si avrà un isolamento molto forte sia di Bin Laden che di Bush. Il che non significa che smetteranno di ammazzare, ma che saranno senza appoggio. E non avranno il coraggio di farlo a lungo senza appoggio. Revelli: Ho però l?impressione che la guerra che alimenta se stessa allontani queste forze che potrebbero avvicinarsi. Se la guerra si allargasse all?Iraq, temo indebolirebbe i critici del wahabismo nel mondo islamico; se avvenisse un nuovo grave attentato in America o in Occidente, indebolirebbe i governi critici. La logica della guerra infinita non rischia di impedire quella convergenza di forze per la pace? Galtung: Sì, sì. Ma non sottovalutiamo il fatto che anche dentro la guerra crescono le forze che si battono in modo nonviolento contro di essa. Il boicottaggio delle merci americane nei Paesi arabi è molto forte e fa molta paura agli americani. E posso immaginare molti europei che potrebbero fare altrettanto. E questo è un sistema efficace, molto efficace, soprattutto per un Paese molto materialista come l?America. La cosa che manca, o comunque che è ancora troppo debole, è la critica del fondamentalismo americano. Ed è quello che cerco di fare con i miei scritti più recenti.


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