Welfare
Sopravvissuti di Cutro: solo 17 sono rimasti in Italia
Si stima che sul barcone ci fossero dalle 175 alle 200 persone. «81 sono sopravvissute, dal mare sono stati recuperati 93 corpi, ma ci sono ancora dei dispersi», spiega Alessandra Mesoraca, responsabile delle politiche sociali del comune di Crotone. «Di tutti i superstiti sono rimasti in Calabria, e entrati nella Rete Sai - sistema di accoglienza e integrazione, 17 persone. Questa strage e le altre ci insegnano che il concetto di “difesa dei confini” deve essere abbandonato, non può reggere nell’era della globalizzazione e umanamente non è accettabile»
di Anna Spena
L’incubo è iniziato la notte tra il 25 e 26 febbraio. La mattina del 26 febbraio la luce dell’alba ha restituito un’immagine drammatica: la spiaggia di Steccato di Cutro, provincia di Crotone, era diventata un tappeto di morti (Strage Crotone, Ignazio, volontario Croce Rossa: «Era un tappeto di morti»).
In Calabria – mentre il Governo litigava e maggioranza e opposizione si lanciavano accuse – c’è stata una mobilitazione straordinaria della società civile. L’abbiamo raccontato qui Strage di Cutro: La politica litiga, la società civile risponde e qui Sulla spiaggia di Cutro la processione della solidarietà.
Quella di Cutro è una strage che non deve essere dimenticata: «umanamente è stata un’esperienza difficilissima», racconta Alessandra Mesoraca, responsabile delle politiche sociali del comune di Crotone. Si stima che sul barcone ci fossero dalle 175 alle 200 persone. «81 sono sopravvissute», continua Mesoraca, «dal mare sono stati recuperati 93 corpi, ma ci sono ancora dei dispersi».
Cosa hanno fatto i sopravvissuti? Dove sono? «La maggior parte dei sopravvissuti ha lasciato l’Italia per dirigersi verso altre destinazioni europee, senza attendere la richiesta di protezione, alcuni sono stati ricollocati in Germania», spiega Mesoraca. «Di tutti i superstiti sono rimasti in Calabria, e entrati nella rete sai – sistema di accoglienza e integrazione, 17 persone, tra loro anche quattro minori non accompagnati».
«Siamo una regione sotto stress», continua la responsabile delle politiche sociali del comune di Crotone. «Si continua ad affrontare l’immigrazione in maniera emergenziale. E invece questo approccio è sbagliato, non funziona. L’immigrazione va affrontata in maniera nazionale e sistemica, soprattutto va affrontata evitando di adottare politiche che facciano da specchio delle allodole, politiche di disumanizzazione e criminalizzazione. Come noi italiani siamo liberi di spostarci liberamente in qualunque parte del mondo anche chi arriva dovrebbe avere lo stesso diritto, diritto che eviterebbe stragi come quella di Cutro e tante altre. Il concetto di “difesa dei confini” deve essere abbandonato, non può reggere nell’era della globalizzazione e umanamente non è accettabile».
Intanto il Governo dichiara lo stato di emergenza a seguito dell’incremento degli arrivi delle persone attraverso le rotte del Mediterraneo. Dal primo gennaio all’undici aprile sono 31.292 i migranti arrivati a fronte dei 7.928 registrati nello stesso periodo dello scorso anno. Ma chi arriva non vuole restare in Italia eppure sul tema immigrazione siamo davanti all’Europa dei continui rinvii.
I primi otto tra i sopravvissuti rimasti in Calabria – tra i 23 e 38 anni – sono stati accolti dalla cooperativa Agorà Kroton che aderisce – insieme alle realtà Kroton community, cooperativa bao bab e associazione prociv, alla rete del Sai. «Quando sono arrivati erano sconvolti», racconta Francesca Rocco, un’operatrice della cooperativa. «Non parlavano, volevano solo sistemarsi il letto, ritrovare una sorta di stabilità. Li guardavo e mi sentivo impotente, arrabbiata. Anche con me stessa. Tutto poteva essere evitato, tutte queste morti potevano essere evitate. Perchè prima di tutto le persone si salvano in mare, poi si pensa agli scafisti e al perché delle cose. Salvare vite umane viene prima e sono così arrabbiata perché solo ora che guardo i sopravvissuti, che ho ancora il ricordo delle bare delle vittime davanti agli occhi, penso che non ho, che non abbiamo, urlato abbastanza. Abbiamo accettato i cambiamenti della legge, dai decreti sicurezza fino a quelli delle ultime settimane contro le ong. Dovevamo gridare di più, farci sentire di più».
Chi ha scelto di entrare nella rete di seconda accoglienza, quasi tutti afghani, parteciperà a corsi di formazione, di lingua italiana e di supporto psicologico. L’obiettivo dell’accoglienza diffusa è l’integrazione sul territorio.
«Hanno già iniziato a frequentare la scuola serale», spiega Rocco. «Ora siamo nel mese di Ramadan e quindi non sono partite le altre attività, è imporntante che abbiano il loro tempo per dedicarsi alla preghiera e riposarsi. Per chi ha scelto di restare l’Italia era fin dall’inizio del viaggio il Paese di destinazione definitivo. Sono più sereni rispetto ai primi giorni, ma si stanno ambientando un po’ alla volta. Sono ospitati in 4 appartamenti e si stanno riprendendo anche fisicamente, uno dei nostri ospiti, per esempio, è arrivato con quattro costole rotte e il braccio rotto, e solo pochi giorni fa gli è stato rimosso il gesso. Hanno fatto tutti domanda d’asilo e ora sono in attesa di andare in commissione per ottenere ufficialmente il permesso di soggiorno. In media ci vogliono dai due ai tre anni per ottenere i documenti, ma nel caso specifico dei sopravvissuti alla strage di Cutro i tempi sono stati accelerati. Ma ogni viaggio è un trauma, una tragedia. Per chi arriva sulle coste italiane come per chi viene soccorso al largo della Libia. I tempi di attesa così lunghi per ottenere i documenti hanno conseguenze sulla psiche dei ragazzi, si sentono sempre in un limbo finché non viene definita la loro posizione in Italia».
Credit foto agenzia Sintesi/Avalon
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