Ho un problema che non riesco proprio a risolvere.
No! Non mi sono trasformata, come il povero Gregor Samsa, in uno spaventoso insetto, ma qualcosa di Kafkiano riecheggia nella mia nuova e spiazzante esperienza.
Non posso più udire e nemmeno pronunciare la parola FUNDRAISING e, per una che vive sul Pianeta Non Profit, è praticamente impossibile. Ve l’assicuro.
Ogni qual volta quella parola si manifesta, un Hacker si impossessa della mia mente (quasi volesse riscriverne il software) e io visualizzo immagini di Corsi, Convegni, Manuali, Regole, Master, Scuole, Festival, Tecniche e Statistiche.
Poi, non contento, lo stesso Hacker apre freneticamente “pannelli” e “finestre” che non riesco a chiudere se non “digitando” parole come: Fiducia, Pace, Amore, Empatia, Convincimento, Trasparenza.
Alla fine di questo suo perverso e sadico gioco, mi trovo davanti allo specchio a ripetere come un Mantra: “Non è una questione di soldi”, “Donare parte da dentro”, “Io non sono un costo ma un investimento”, “Sono competente”, “Giuro di essere al servizio della causa”, “Vivo sempre di opportunità”, “Fidati”, “Le persone anziane saranno i miei migliori amici”, “Dirò la verità”.
Poi svengo.
Al mio risveglio capisco che c’è qualcosa che non funziona: accanto a me è comparso un cartello, su cui campeggia la scritta “Grazie, caro donatore”.
Cos’è accaduto e perché?
Ne ho parlato con uno Specialista il quale, dopo accurate analisi, mi ha diagnosticato “un’esagerata reattività dell’organismo ad un particolare stimolo esterno”.
In parole povere: sono allergica al Fundrasing, o per meglio dire, a tutto ciò che ruota intorno ad esso.
La ragione sta tutta nel mio passato Profit: quello senza negazione, secco, impietoso.
Lì era tutto chiaro:
– c’è uno che inventa o copia
– c’è uno che mette l’invenzione o la copia in una scatola
– poi c’è uno che si inventa un nome e un Claim, che ti tentano come le Sirene dell’Odissea
e, alla fine,
– c’è uno che prende tutto questo e lo offre, in cambio di denaro, a qualcun altro.
Qui no.
In questo “nuovo” Mondo
– è tutto già inventato
– è tutto già inscatolato
– nessuno lo vede e lo vuole comprare
ma
– c’è sempre qualcuno che deve prendere tutto questo e “offrirlo” (concedetemi il termine), in cambio di denaro, a qualcun altro.
La differenza è chiara.
Nel primo caso il compratore si impossessa dell’oggetto.
Nel secondo no, ed è un vero peccato. Sarebbe bello portarsi a casa il dramma della gente e cullarlo un po’, sarebbe fantastico portarsi a casa l’emarginazione di un popolo e soffiarci sopra o magari poter nascondere nell’armadio guerra, malattia e dolore. Già! Se ciascuno di noi si potesse “comprare” parte del dolore del mondo, quel dolore sarebbe roba di tutti e non solo degli “altri”.
Ora però mi fermo, non vorrei perdermi.
Il fatto è che penso sinceramente che non siano gli abitanti del Pianeta Non Profit a dover imparare come “offrire” questa parte di dolore.
Non credo tocchi a loro spiegare il perché si debba aiutare chi è in difficoltà.
No. Non è accettabile. E faccio un esempio: cammini per strada. Una vecchietta davanti a te cade. Corri verso di lei o ti aspetti che qualcuno ti spieghi perché sia giusto non lasciarla sull’asfalto proseguendo come se nulla fosse accaduto?
Se stai pensando a come rispondere, non proseguire la lettura: rientri tra quei “tutti” che devono imparare che bisogna soccorrere chi è in difficoltà, sempre e in ogni modo.
Quindi: non siamo Noi ( mi riferisco agli abitanti del Pianeta Non Profit) a dover diventare amici dei potenziali donatori. Sono loro che devono sentirsi “in obbligo” e quindi accoglierci con un “Venga, l’aspettavo!” e chiosare poi con “Grazie, caro Fundraiser!”
Avete mai sentito un direttore commerciale dire alla forza vendita: “Siate empatici con il Buyer di Esselunga”? Mai e poi mai.
Nel non profit sì perché le uniche responsabilità e colpa paiono essere le nostre.
Se il Buyer della Solidarietà non ha “comprato” è perché non sono state rispettate le regole del bon ton o i Comandamenti del Fundraising.
Ecco, io sono allergica a presunte responsabilità confezionate per celare sempre e solo quelle degli altri. Mi ribello pacificamente al senso di colpa che noi stessi alimentiamo (forse per comodità).
Perché qui la colpa è il girarsi dall’altra parte, non l’essere incapaci di afferrare la testa e bloccarla.
Cosa fa VITA?
Da 30 anni VITA è la testata di riferimento dell’innovazione sociale, dell’attivismo civico e del Terzo settore. Siamo un’impresa sociale senza scopo di lucro: raccontiamo storie, promuoviamo campagne, interpelliamo le imprese, la politica e le istituzioni per promuovere i valori dell’interesse generale e del bene comune. Se riusciamo a farlo è grazie a chi decide di sostenerci.