Vorrei condividere con i lettori di questo Blog, una riflessione sulla Somalia che ho scritto per Avvenire. Come noto, per la prima volta dall’inizio della loro missione navale nel Corno d’Africa, le forze dell’Unione Europea hanno attaccato martedì scorso le basi dei pirati sulla costa somala con un bombardamento aereo. L’operazione è stata condotta d’intesa con il governo transitorio di Mogadiscio, in linea con la risoluzione 1851 del Consiglio di Sicurezza dell’Onu. Sebbene questa iniziativa echeggiasse nell’aria da tempo, essa non pare sia stata motivata esclusivamente dalla minaccia costante che la pirateria rappresenta per il popolo somalo, quanto soprattutto per i costi che genera in termini di assicurazioni navali e protezione fisica dei convogli. Un fenomeno che gli armatori di tutto il mondo hanno apertamente denunciato in più circostanze e sul quale sperano di ricevere un aiuto concreto. Ma attenzione, la sicurezza dei mari è legata anche alla questione del petrolio. Infatti, gli interessi energetici sulle riserve on e offshore dell’Oceano Indiano, riguardano geograficamente e politicamente l’entità autonoma del Puntland, che è accusata di essere il principale centro da cui operano i pirati. Sta di fatto che tra i governi europei, quello che guarda con maggiore interesse al business degli idrocarburi in Somalia è il Regno Unito che non a caso, nel febbraio scorso, ha ospitato la Conferenza di Londra. D’altronde, già in passato, si era parlato di un impegno dell’Africa Oil, in collaborazione con la Range Resources e la Red Emperor Resources, per lo sfruttamento dei due block produttivi onshore di Dahroor e di Nugaal, che sarebbero stimati per un totale di 5,2 miliardi di barili. E da quelle parti c’è già oggi chi è pronto a giurare che la prima fase nelle procedure estrattive sia già partita. Prospettive indiscutibilmente allettanti se si considera che nel complesso il bacino petrolifero del Puntland sarebbe in grado di generare circa 10 miliardi di barili di greggio. Una eventualità che, se fosse confermata, farebbe entrare la Somalia nella “top 20” dei giganti petroliferi. Ma quella del petrolio è in effetti una vecchia storia. Già alla fine degli anni Ottanta si era sparsa la notizia che i fondali dell’Oceano Indiano fossero ricchi di petrolio e non a caso in quel periodo furono ripetutamente avvistate unità navali battenti bandiere di comodo, attrezzate per la ricerca degli idrocarburi le quali comunque godevano, a scopo cautelativo, di una scorta armata. Sudi accurati, commissionati dalla Banca Mondiale sotto la direzione del geologo Thomas E. O’Connor, in effetti avevano già indicato nel gennaio del 1991, pochi giorni prima che cadesse il regime di Siad Barre, rispettivamente la Somalia e lo Yemen come due sponde della stessa configurazione geologica contenente un enorme potenziale di giacimenti offshore. Ma in Somalia, sulla terraferma, a dettare le regole del gioco, a parte i famigerati bucanieri, sono soprattutto le numerose bande armate, estremisti islamici in primis, meglio noti come “Al Shabaab”. E a questo proposito, il Consiglio di Sicurezza, pur rilevando i progressi finora compiuti nell’attuazione della Road Map, ha mostrato preoccupazione per il fatto che a circa tre mesi dalla scadenza del periodo transitorio, prevista per il 20 agosto prossimo, le istituzioni federali fanno fatica a perseguire gli obiettivi previsti nella tabella di marcia, compresa la creazione di un’Assemblea Costituente e l’adozione di una Carta Costituzionale che sostenga il rispetto dei diritti e delle libertà fondamentali. Una cosa è certa: il business dell’oro nero, guardando al futuro, potrebbe giocare un ruolo non indifferente ora che il mandato delle istituzioni federali di transizione è vicino al termine e il processo politico federale ha certamente bisogno di nuovi input. Anche se poi bisognerà vedere, alla prova dei fatti, come riconciliare in Somalia le istanze di una good governance, con gli interessi di quei potentati stranieri che vanno in cerca di fonti energetiche. Esiste pertanto il rischio che il fattore-petrolio eroda il quadro già fragile dei margini negoziali, acuendo l’instabilità nello scacchiere del Corno d’Africa, sempre più linea di faglia tra Oriente e Occidente.
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