Quando ieri ho letto questa notizia, devo ammetterlo, mi si è stretto il cuore e ho provato al contempo un senso di forte indignazione. Sei bimbi tra i tre e gli 11 anni, quattro maschi e due femmine, sono morti in seguito all’esplosione accidentale di una mina. Questa tragedia, causata pare da un vecchio residuato bellico, è avvenuta lunedì pomeriggio a Balambane, un piccolo villaggio nel settore centro occidentale della Somalia, a poca distanza dalla frontiera etiopica. Stando a fonti giornalistiche locali, le piccole vittime stavano preparando il cibo con i genitori ed un altro fratellino, quando è avvenuta l’esplosione: i tre si sono miracolosamente salvati. Non v’è dubbio che questo agghiacciante fatto di cronaca non può essere considerato accidentale, non foss’altro perché l’intera Somalia oggi pullula di ordigni bellici inesplosi. D’altronde, considerando la situazione in cui versa questo Paese, è impensabile ipotizzare un’azione di bonifica; a meno che non si realizzi l’agognato processo di riconciliazione. La Somalia ha ormai raggiunto il punto di non ritorno e rappresenta l’emblema del fallimento, non solo per i vari governi che si sono succeduti dalla caduta del regime di Siad Barre nel 1991, ma per l’intero consesso delle nazioni che attraverso la diplomazia internazionale ha collezionato un’interminabile sfilza d’inenarrabili fiaschi. Ecco che allora questa terra, esposta a Oriente quasi fosse parte del puzzle geografico che lega a incastro la costa africana alla sponda yemenita, s’è trasformata nel tempo in una landa desolata dove oltre tre milioni e seicentomila persone sono costrette a vivere all’addiaccio, senza fissa dimora, dipendenti esclusivamente dall’aiuto umanitario. Un’umanità dolente sferzata anche dagli eventi naturali. Basti pensare che sarebbero almeno 16mila i disperati che hanno perso anche il poco che avevano a causa delle piogge torrenziali che in questi giorni si sono abbattute sulla Somalia meridionale. Un ciclone che si è abbattuto su una situazione già endemicamente grave. Le Nazioni Unite hanno lanciato il solito appello, lamentando la scarsità dei fondi a disposizione per gli interventi umanitari in questa parte del Corno d’Africa che rappresenta – è bene rammentarlo – la prima tra le nazioni più disastrate al mondo. Intanto, l’informazione nostrana, con poche e lodevoli eccezioni, continua a tacere le vicende somale, di una terra cioè legata a noi, prima, per le vicende coloniali e, poi, negli anni ‘50, per un’amministrazione fiduciaria in vista dell’indipendenza. Ormai è una consuetudine: per parlarne occorre la notizia del sequestro di qualche nostro connazionale, poco importa se per mano dei pirati o dei ribelli di questa o quella fazione. Altrimenti i morti ammazzati, come i bimbi di cui sopra, finisco inevitabilmente nel dimenticatoio. Ma bisogna pur tornare a riflettere sulla Somalia, linea di faglia tra Oriente e Occidente, che galleggia sul petrolio e dispone di giacimenti di uranio e gas che fanno gola a molti potentati stranieri. Organizzazioni malavitose, d’ispirazione jihadista e non solo, combattono per procura puntando al controllo di queste immense risorse minerarie. Dietro le quinte ci sono potentati occulti, che intrallazzano nei commerci illeciti più spregiudicati. Qualcuno penserà che certe cose non si possono scrivere in quanto la situazione in quel lembo d’Africa interessa a pochi ed è maledettamente complicata. Un alibi davvero misero. Ma le cancellerie internazionali che continuano a ignorare il lamento che sale dai popoli di questa periferia del mondo non hanno neppure questa fragile scusa. Continua, così, a generarsi un incessante esodo di profughi, molti dei quali sognano il raggiungimento della sponda europea del Mediterraneo, quasi fosse la metafora di una libertà mai avuta. Ma questa è un’altra storia.
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