Nel corso del summit sugli Obiettivi del Millennio che si è svolto in questi giorni a New York, mi ha colpito una dichiarazione di Mwai Kibaki. Il presidente keniano ha dichiarato che “le condizioni di sicurezza in Somalia continuano a peggiorare, minacciando la pace e la stabilità in tutta la regione e oltre”. Kibaki ha poi definito questo disastrato Paese del Corno d’Africa come la maggiore minaccia alla pace e alla sicurezza internazionali, esprimendo “profonda preoccupazione” di fronte alla “disattenzione” della comunità internazionale verso la Somalia e alla “riluttanza” del Consiglio di Sicurezza ad affrontare la scottante questione somala. Tutto questo ha portato a perdere “molte opportunità per risolvere la crisi”, ha concluso Kibaki.
In effetti, il capo di stato keniano ha perfettamente ragione nel dire certe cose, considerando soprattutto che la Somalia è ormai diventata una sorta di “buco nero” nel contesto geopolitico del continente africano. Martedì scorso, ad esempio, il primo ministro Omar Abdirashid Sharmarke ha rassegnato le dimissioni, a seguito di un crescendo di polemiche che hanno accompagnato il suo mandato. Come ho anche scritto sull’edizione cartacea di ieri del quotidiano “Avvenire”, il braccio di ferro con gli oppositori andava avanti da parecchio tempo, al punto tale che già lo scorso maggio il suo governo era stato battuto in Parlamento su un voto di fiducia. In una democrazia parlamentare robusta, una notizia come questa non scandalizzerebbe nessuno, ma in Somalia, dove il governo federale di transizione a malapena controlla pochi scampoli di territorio, significa che tutto, ma davvero tutto, si sta impietosamente dissolvendo sotto gli occhi della comunità internazionale, governi africani in primis. Ecco perché non convince più di tanto il laconico appello lanciato martedì scorso dall’inviato speciale del Segretario Generale dell’Onu in Somalia, Augustine Mahiga, il quale ha invocato la fine delle “divisioni interne che sinora non hanno consentito all’esecutivo somalo di portare avanti i suoi compiti essenziali”. Una considerazione ineccepibile la sua, ma che non basta da sola a lenire le sofferenze del popolo somalo, considerando peraltro che da quelle parti non passa giorno che non vi siano sparatorie e ammazzamenti tra i famigerati ribelli al Shabaab e le forze filogovernative, sostenute dai peacekeeper dell’Amisom, sotto l’egida dell’Unione africana. E proprio il comandante di questo contingente, il generale ugandese Nathan Mugisha, ha chiesto agli al Shabaab un “cessate il fuoco”, in occasione della Giornata della Pace indetta dall’Onu. Anche in questo caso, al di là delle affermazioni di principio, questa esortazione lascia il tempo che trova. Basti pensare che in queste settimane, secondo autorevoli fonti diplomatiche, alcuni gruppi di ribelli attivi attorno alla capitale somala avrebbero manifestato la disponibilità a deporre le armi e a consegnarsi all’Amisom. Curiosamente, questa decisione avrebbe causato un certo scompiglio nello stato maggiore della forza di pace, non essendo mai state definite delle procedure e dei protocolli per la loro smilitarizzazione. A riprova che non esiste ancora un serio progetto politico per realizzare l’agognata riconciliazione nazionale. Insomma i ribelli di “buona volontà” dovrebbero rimanere dove stanno, dietro le trincee, senza sparare, in attesa che qualcuno decida sul da farsi.
Non basta allora che le Nazioni Unite esprimano in modo altisonante la loro preoccupazione per la spirale di violenze che insanguina la Somalia o stigmatizzino le divisioni interne all’esecutivo. A questo punto, viene spontaneo chiedersi se sia possibile che il Consiglio di Sicurezza, come anche nell’ambito dell’Unione Africana, si continui a prendere sotto gamba la questione somala, stando alla finestra a guardare. Se da una parte è vero che nel luglio scorso i capi di stato e di governo africani, riuniti a Kampala (Uganda) hanno convenuto di aumentare il numero dei peacekeeper dispiegati in Somalia, dall’altra non è ancora stata messa a punto alcuna iniziativa politica di dialogo tra somali con l’intento di ricucire le lacerazioni all’interno del Paese. A questo proposito va ricordato che da molti anni l’Italia è in prima fila nel sostenere questo indirizzo con tutti quei soggetti che affermano d’essere portatori di un’agenda somala. Si tratta in sostanza di operare un sano discernimento per evitare che i sostenitori di altre agende internazionali, poco importa se di matrice mediorientale o addirittura legate ad Al Qaeda, possano continuare a seminare zizzania. La posta in gioco è alta perché di questo passo gli al Shabaab, per quanto siano poche migliaia in tutta la Somalia, con le loro scorribande rischiano di contaminare l’intero Corno d’Africa.
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