Mondo

Somalia: Nuovo Primo Ministro

di Giulio Albanese

Il presidente somalo Sheikh Hassan Mohamud Abdi Farah ha nominato ieri Shirdon Saaid primo ministro del tormentato Paese africano. Si tratta, sul piano formale, della prima decisione importante presa dalla nuova dirigenza somala. Saaid, ha un passato da uomo d’affari nel vicino Kenya ed è sposato con Asha Haji Elmi, un’attivista pacifista assai influente in Somalia. Stiamo parlando – è bene rammentarlo – di un Paese che è sempre più parte di uno scacchiere geopolitico dove, agli antagonismi ancestrali tra i vari clan, si associano interessi di altra natura. Oltre ai “signori della guer­ra” – in antitesi a qualsiasi organo statuale, avendo il controllo di scampoli variegati di territorio a cui non intendono rinunciare – vi sono potenze straniere che anelano alle immense risorse energetiche del sottosuolo che vanno dal petrolio al gas e all’uranio. A ciò si aggiunge l’irrequietezza della sponda yemenita da cui salpano sistematicamente pattuglie di estremisti lautamente foraggiati dal fronte salafita che si sta sempre più radicando nell’Africa setten­trionale a seguito delle rivolte che hanno interessato, con modalità diverse, Egitto, Libia e Tunisia.

La posta in gioco è alta, non foss’altro perché fin quando la Somalia sarà parcellizzata, pur avendo un governo internazionalmente riconosciuto, sarà ostaggio degli estremisti. Purtroppo, è il caso di dirlo, gli errori commessi dalla diplomazia statunitense nel dicembre del 2006, quando non riconobbe all’interno delle Corti islamiche la componente mode­rata allora prevalente che avrebbe potuto segnare la svolta, hanno fatto sì che gli shabaab , (i ribelli jihadisti somali fautori dell’imperio assoluto della sharia, la cosiddetta “legge islamica”)monopolizzassero la lotta armata contro le fragili istituzioni transitorie, a Mogadiscio e dintorni. Mentre scriviamo è in atto un’offensiva in Somalia delle forze dell’Unione Africana (Ua), fiancheggiate da quelle meglio addestrate dell’esercito keniano. Sebbene la città di Kismayo sia stata espugnata e gli shabaab costretti ad un’affannosa ritirata, non è ancora detta l’ultima parola. I ribelli infatti sono terroristi e hanno già cominciato a fare attentati, combattendo una guerra non convenzionale.

Che fare allora, dal momento che gli shabaab di cui sopra potrebbero continuare a colpire non solo le città somale, ma anche il Kenya (come avvenuto la scorsa settimana a Nairobi nella chiesa anglicana di san Policarpo) , per non parlare delle altre nazioni limitrofe, contaminando l’intera regione del Corno d’Africa? Politicamente parlando, il sostegno alle legittime autorità insediate a Mogadiscio è doveroso, ma esso non può prescindere da un’azione persuasiva che induca tutte le componenti all’interno della Somalia a dialogare. Potrebbe, inoltre, apportare degli elementi di novità, di analisi e di proposta ai decisori politici un maggiore coinvolgimento della società civile africana. Essa ha dimostrato di saper contribuire, talvolta con sorprendente efficacia, alla vita politica, culturale ed economica della Somalia e dei Paesi limitrofi, pagando spesso con la vita di alcuni suoi esponenti di rilievo. Perché allora non proporre una conferenza di questi attori che operano nell’area – autorevoli organizzazioni somale, etiopi, eritree, keniote, gibutine – affinché esprimano il proprio punto di vista sui processi di pacificazione in Somalia e nell’intero Corno d’Africa? L’esperienza di oltre vent’anni di guerra civile ha dimostrato che gli scontri armati (che ci si illude di considerare “locali”) causano violenze, morte, abusi e un contagio che mina ogni processo di pacificazione. Solo una decisa azione per un dialogo inclusivo potrà contenere il rischio della progressiva militarizzazione di una fase come quella odierna, che dovrebbe essere eminentemente politica.

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