Cari amici lettori, in questi giorni ho seguito con grande apprensione le vicende che hanno sconvolto la Somalia. Mi riferisco all’escalation di violenze a seguito dell’attentato avvenuto in un albergo di Mogadiscio il 24 agosto scorso, nel quale hanno perso la vita una trentina di persone tra cui sei parlamentari. L’offensiva è stata lanciata dagli estremisti Al-Shabaab contro il palazzo presidenziale difeso dalle truppe lealiste e dall’Amisom, la forza di pace dell’Unione Africana. E mentre la povera gente continua a pagare il prezzo più alto in vite umane, la sensazione è che la latitanza della Comunità internazionale abbia decisamente contribuito all’inasprimento della lotta armata. Personalmente, ho molto apprezzato l’accorato appello lanciato da Benedetto XVI nel quale ha chiesto che non si risparmino sforzi per ristabilire il rispetto della vita e dei diritti umani.
A questo punto, come ho scritto sull’edizione odierna di Avvenire, le ipotesi sul tappeto sono fondamentalmente due. La prima è quella dell’opzione bellica che gli Stati Uniti hanno sostenuto con grande determinazione, ritenendo gli Al-Shabaab una vera e propria formazione legata al terrorismo “qaedista”. A detta di non pochi osservatori, questa strategia non solo si è già rivelata fallimentare, ma rischierebbe comunque di acuire la ribellione: Afghanistan docet! Vi è poi la possibilità di un’ iniziativa politica di dialogo tra somali con l’intento di ricucire le lacerazioni all’interno del Paese. A questo proposito è bene rammentare che l’Italia ha sostenuto questo indirizzo in accordo con la maggioranza dei Paesi dell’Unione Europea essendo uno dei promotori dell’accordo di Gibuti del 2008. Il dato preoccupante però è che, dopo tanti anni di iniziative diplomatiche, quelle peraltro che hanno consentito la creazione delle istituzioni transitorie, l’interesse internazionale nei confronti della Somalia è decisamente andato scemando rispetto al passato. Da quando in particolare è avvenuto il ritiro delle forze d’occupazione etiopiche, a parte le regolari attività del cosiddetto “Gruppo internazionale del contatto della Somalia” per sostenere la pace e la riconciliazione nel tormentato Paese africano, non vi sono state proposte degne di nota. Per carità si è affrontata la questione della pirateria, ma senza mai inserirla nel contesto più generale della questione somala. Lo stesso “Gruppo di Contatto” composto da ambasciatori occidentali delle Nazioni Unite e che vede il nostro Paese in prima fila, rimane pur sempre un team informale al cui interno non pare esservi stata finora unità d’intenti. L’iniziativa politica dovrebbe comunque avvenire con tutti quei soggetti che affermano d’essere portatori di un’agenda somala. Si tratta in sostanza di operare un sano discernimento per evitare che i sostenitori di altre agende internazionali, poco importa se di matrice mediorientale o addirittura legate ad Al Qaeda, possano continuare ad interferire nelle vicende somale.
Occorre pertanto individuare un mediatore di calibro, in grado di parlare con le parti in conflitto, con tutte le componenti somale, senza escludere i governi del Corno d’Africa e della sponda arabica. La Commissione europea ha un inviato speciale, George Marc André, ma sarebbe certamente auspicabile che Bruxelles nominasse un inviato politico dell’Unione Europea dando maggiore forza all’iniziativa. E considerando i nostri trascorsi in Somalia non sarebbe male se questo personaggio fosse italiano. A me viene sempre in mente Mario Raffaelli – l’ho già scritto altre volte su questo blog – che ha fatto molto bene in questi anni ricoprendo l’incarico di inviato speciale del governo italiano. Non bisogna però perdere tempo perché tra un anno scadono tutte le istituzioni transitorie della Somalia e il rischio è che di questo passo la crisi somala contamini e destabilizzi l’intero Corno d’Africa. L’intento di qualsiasi iniziativa politica non potrà comunque prescindere da un rafforzamento di quelle aree della Somalia che sono più stabili, come il Somaliland e il Puntland, creando un corridoio per l’approvvigionamento di cibo e medicine per i civili che stanno soffrendo pene indicibili a Mogadiscio. D’altronde, nel complesso, sono tre milioni gli sfollati nella Somalia centromeridionale.
Dulcis in fundo, sarebbe ora che l’Unione Africana uscisse definitivamente allo scoperto. A cosa serve mandare un contingente come l’Amisom in Somalia in assenza di un chiaro progetto politico? Lo stesso ragionamento, naturalmente, vale per le Nazioni Unite che continuano a stare alla finestra a guardare. Una cosa è certa: se nel Novecento la linea di faglia tra Oriente e Occidente era in Medio Oriente (per il petrolio), nel terzo Millennio questa contrapposizione sta investendo il continente africano, a partire dalla Somalia. Ancora oggi sui manuali di geografia economica si legge che questo Paese è ricco di cammelli, banane e pesce. Si dimentica – volutamente o per negligenza – che custodisce nel sottosuolo petrolio, gas e uranio. E chi vuole la guerra lo sa bene!
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