La crisi somala sta contaminando l’intero Corno d’Africa. L’ho scritto sabato scorso su Avvenire e la cronaca di queste ore non fa che confermare le mie preoccupazioni. La dice lunga la scesa in campo degli americani che hanno deciso di usare la mano pesante, utilizzando alcuni droni che avrebbero ucciso giovedì scorso almeno 25 civili e ferito altre decine di persone nel settore meridionale dell’ex colonia italiana. Ma anche i francesi non stanno alla finestra a guardare avendo deciso di fornire supporto logistico all’operazione militare keniana in territorio somalo. È questo in effetti il dato “politico-militare” più rilevante. Una strategia, quella messa a punto dal governo di Nairobi, che vorrebbe spazzare via gli al-Shabaab, responsabili di morte e distruzione in Somalia. E se da una parte l’operazione militare keniana pare studiata a tavolino, si acuisce il rischio di un’ulteriore escalation di rappresaglie da parte degli estremisti islamici. L’iniziativa di Nairobi ha comunque irritato anche il governo federale di transizione del presidente somalo Sheikh Sharif Sheikh Ahmed, il quale ha ribadito la sua opposizione alla presenza di truppe keniane sul proprio suolo. Lo stesso concetto è stato espresso a chiare lettere dal primo ministro Ali Mohamed Abdiweli, il quale ha ricordato che gli accordi pregressi con il vicino erano di ben altro tenore. Secondo il premier di Mogadiscio, le forze armate di Nairobi avrebbero dovuto fornire, solo un’assistenza tecnico logistica per l’addestramento dell’esercito, mentre ora i militari keniani sarebbero diventati una vera forza occupante.
Tuttavia, quando, il 16 ottobre scorso, le truppe keniane hanno cominciato a varcare il confine con la Somalia, era chiaro alla maggioranza degli osservatori che non si sarebbe trattato di un semplice diversivo. Si trattava piuttosto di una chiara risposta a recenti sequestri e uccisioni perpetrati dagli al-Shabaab sul territorio keniano, con l’obiettivo, inoltre, di garantire l’incolumità dei profughi somali che in questi mesi si sono insediati sul territorio keniano, in seguito di una carestia senza precedenti. A questo punto viene spontaneo chiedersi se questa ennesima iniziativa militare, che pare coinvolgere sempre più nazioni straniere, possa davvero servire al bene della regione, considerando l’ostracismo del governo federale di transizione somalo. E cosa dire del fatto che in questi anni tutti gli eserciti stranieri che hanno usato la mano forte contro le forze ribelli (gli ultimi sonno stati i militari di Addis Abeba) hanno fallito? Da rilevare, inoltre, che nell’arco degli ultimi quindici giorni gli estremisti somali hanno intensificato le loro azioni contro il Kenya, come peraltro già avvenuto in passato con l’Uganda. Basti pensare al raid contro un bus nel Nordest, che ha causato, il 27 ottobre scorso, la morte di tutte le persone a bordo del mezzo. Si è trattato del terzo attentato sul territorio keniano in meno di una settimana, dopo quelli compiuti a Nairobi con quattro morti. Sebbene gli al-Shabaab non godano di ampio sostegno della popolazione somala, riescono di fatto a fare il bello e cattivo tempo, approfittando delle divisioni interne al Paese. In effetti, la Somalia appare sempre più parcellizzata in piccoli feudi sotto il controllo dei clan tradizionali e di un manipolo di agguerriti “signori della guerra”, molte volte in lite tra loro. Intanto il governo di Nairobi ha già annunciato che il prossimo passo sarà marciare verso Chisimaio. Una cosa è certa, la confusione regna sovrana, non solo per la spregiudicatezza degli al Shabaab, ma anche per la curiosa strategia del presidente Sheikh Sharif Sheikh Ahmed che, alla prova dei fatti, pare voglia mantenere lo “status quo”. Basti pensare che in questi giorni avrebbe chiesto allo stato maggiore dei peeacekeeper dell’Unione Africana di non attaccare alcuni quartieri di Mogadiscio in cui sono asserragliati gli estremisti islamici. Qualcuno comincia addirittura a pensare che stia facendo il doppio gioco per i suoi trascorsi nelle Corti islamiche. La ciliegina sulla torta, si fa per dire, l’hanno messa gli eritrei che, secondo fonti d’intelligenze, avrebbero fornito armi e munizioni agli al-Shabaab.
Personalmente, condivido dalla “A” alla “Z” il punto di vista dell’ex inviato speciale italiano in Somalia Mario Raffaelli secondo cui un intervento armato in questo momento potrebbe ottenere l’effetto opposto, ovvero quello di rinsaldare il consenso della popolazione attorno agli Shabaab, che invece era notevolmente diminuita negli ultimi tempi. E dire che una ricetta per uscire dalla crisi era stata suggerita, in più circostanze, proprio da Raffaelli secondo cui la Comunità internazionale doveva farsi interprete di un’iniziativa negoziale in cui la discriminazione nelle trattative non doveva essere fra islamici “radicali” e “moderati”, ma tra chi rivendica un’agenda somala e chi persegue, invece, altri interessi, poco importa se di matrice mediorientale o addirittura legati ad Al Qaeda, interferendo nelle vicende somale. Solo in questo modo si sarebbero potute smascherare le contraddizioni interne agli al Shabaab che costituiscono un’esigua minoranza rispetto ai milioni di somali costretti a patire le loro angherie. Purtroppo ora le cose sembrano complicarsi ulteriormente e la sensazione è d’essere giunti ad un vicolo cieco.
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