Mondo

Somalia: ci dispiace, ma i fondi non ci sono

La forza di pace internazionale prevista per aprile rimane un miraggio. Problemi di fondi e insicurezza si giustifica l'Onu

di Joshua Massarenti

Secondo quanto riferisce l’Afp, “il dispiegamento della forza di pace in Somali, i cui primi elementi erano previsti a fine aprile, è rimandato per mancanza di fondi e dell’insicurezza che regna nel Paese africano”. La forza di pace in Somalia, sotto l’egida dell’Autorità integovernativa di sviluppo (Igad), che riunisce sette Paesi della regione, Djibuti, Etiopia, Kenya, Uganda, Sudan, Eritrea e Somalia, prevede 10mila uomini, ma finora nessuna data è stata comunicata per i primi sbarchi dei soldati dell’Unione africana (Ua). “Aspettiamo i fondi dell’Unione africana (Ua)” ha dichiarato ieri all’Afp Peter Nkuraiya, il segretario permanente dell’Igad, secondo il quale la mancanza di fondi “è il primo ostacolo che spiega il rimando del dispiegamento delle truppe africane”. Ma un funzionario ugandese ha sottolineato sotto forma anonima che “la regione non può condurre un disarmo forzato”, riferendosi alle migliaia di miliziani ancora attivi in Somalia. Quindi l’insicurezza è la seconda ragione per la quale l’Ua, che ha incaricato l’Igad di seguire il processo di pace somalo, non intende mandare i suoi soldati in un terreno così fragile e destabilizzato. Di fatti, l’insicurezza continua a regnare sovrana, soprattutto a Mogadiscio, la capitale somala, tutt’ora controllata da capi tribali in lotta per il controllo della città. Lo scorso 3 maggio, l’esplosione di una granata aveva fatto almeno 15 morti nel corso di un meeting tenuto da Ali Mohammed Gedi, il Premier somalo protagonista di una prima visita ufficiale a Mogadiscio. I capi tribali sembrano essere i responsabili di questo attentato. Per questo, fonti dell’Igad intendono includere i capi tribali al governo di transizione formatosi pochi mesi al termine di 15 anni di guerra civile. Dal 1991, il conflitto somalo ha fatto tra i 300mila e i 500mila morti. Istituzioni transitorie (presidente, primo ministro e parlamento) sono stati nominati nel gennaio scorso per traghettare il Paese verso una normalizzazione politica. Ma l’insicurezza sta facendo sì che il nuovo regime è costretto a permanere in Kenya.


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