Formazione
Soltanto mio
Decimo appuntamento con i racconti dell'estate: Aurelio Picca
Uno scrittore dal linguaggio aggressivo e romantico
Prosegue la serie dei racconti di giovani autori italiani contemporanei sul tema ?Genitori e figli?. Questa settimana è il turno di Aurelio Picca, uno degli scrittori più originali e provocatori del panorama editoriale italiano, con il suo linguaggio aggressivo e romantico.
Nato a Velletri nel 1957, e vive nella campagna laziale, di fronte a Capo Circeo. Ha pubblicato la raccolta di versi Per punizione (Rotundo, 1990) , due volumi di racconti, La schiuma (Gremese, 1992) e I racconti dell?eternità (Nuova Compagnia editrice, 1995), oltre ai romanzi L?esame di maturità (Giunti, 1995) e I mulatti (Giunti, 1996). Picca è anche redattore della rivista ?Nuovi Argomenti?, diretta da Enzo Siciliano, e ha scritto raconti, recensioni, reportage per ?Panta?, ?Il Messaggero?, ?Il Sabato?, ?L?Unità?.
Sugli scorsi numeri abbiamo già pubblicato i racconti di Luca Doninelli, Davide Rondoni, Bruno Rinaldi, Raul Montanari, Sandro Onofri, Erri De Luca, Vincenzo Gambardella, Enzo Fontana, Tiziano Scarpa e Dario Voltolini. Chiuderà la serie di racconti Chiara Zocchi.
Il letto era una schiena. E le lenzuola mi coprivano di disagio. È vero: il letto degli alberghi ti scaccia. O ti cattura nel suo guanto, come se avesse una particolare attenzione nei confronti del corpi che lo abitano. Ecco: il letto ha una sensibile grana epidermica.
Il letto d?albergo, propriamente, si contorce all?amore. Si direbbe che si protragga, per anni, nel contorcimento: una sorta di tortura che gli è inflitta, e che perpetra sugli uomini che lo possiedono. Assurdamente, infine, pare che i corpi siano inchiodati alla griglia della tortura.
Strano, veramente strano, nei letti degli alberghi il corpo si prova, ma raramente è ispirato, magari all?amore. Eppoi mi alzavo stanco, la pelle mi si era assottigliata: si poteva lacerare da un momento all?altro, se fossi rimasto coricato.
Nella stanza da bagno entravo in una tavolozza di colori ammuffiti. E là, prima di avvedermi di perdere sangue, traducevo i graffi dei muri, in figure; le sbavature, in chiome. E gli scheletri in breve catalogo di nature morte: una vegetazione di roverelle; due rondini come mosche; uno scarabocchio; una forcina con l?occhio a sole. Non ci avevo fatto caso di perdere sangue. Gocciolava in una pozza di colore. Non guardavo il sangue, mi era indifferente, era unicamente il colore a interessarmi. Tutt?al più, mi infastidiva l?idea che il mio sangue si sfiancasse e impuzzasse nelle foglie; però mi riconfortava il pensiero che questo immischiarsi di liquami non avrebbe fatto del male a nessuno, tantomeno a me.
Nella conta delle mattine, il mio sangue fu un elemento, come dire, buono. Era normale, per me, considerarlo buono, perché doveva pensare il contrario?
Era rosso; se ne andava senza lasciare traccia; no mi rubava i pensieri nello specchio, e innanzitutto, non mi sottraeva la fede incrollabile che riponevo in lui. Senza spiegarmelo lo trattavo come un compagno di viaggio, liquido regalo della terra. Pura fertilità. Che uscisse da me era una prova di fedeltà nei riguardi della forza; di una forza piuttosto profonda: difficilmente traducibile. Del sangue ovviamente non ne parlavo con Mara.
Alla sera, con Mara, ci guardavamo lontani. Andare via. E la tristezza pregava per noi con la sua umiltà. Guardavo il soffitto come se stessi spiando gli astri. E la mia mente si apriva a chiudeva al pari della bocca di un pesce.
Giocavo a rincorrere le parole. I capelli? I capelli sono fili. Quella cicatrice non l?avevo mai vista. Che pensi, che il corpo sia di pietra? Spingi di più. Si alza al soffitto! La colomba non vola con le braccia. Nell?imbuto c?è uno spago che mi trattiene. Il cazzo di biscia. La fontanella con la fregnetta umida. (…)
Mara una sera incominciò a urlare.
Ci eravamo attardati sul terrazzo dell?albergo. Il mare era un gigante. La signora bionda come un obelisco riordinava i registri. Rispondeva al telefono. Spegneva una lampada. E faceva finta di non riconoscermi. Però, come sempre, non aveva la faccia di cera. L?aveva da principessa normanna rinchiusa in un castello. Era ora una donna dimenticata? Il mio cinismo, su di lei, pesava da pietra. E perché mai altrimenti non avrebbe dovuto? Lei, in fondo, chi la conosceva?
Mara giocava con l?elastichino della busta dell?ovata. A un tratto, senza motivo, si alza dalla sedia e se ne va.
«Si è annoiata. Perché debbo parlarle? Non è lei, forse, che si ostina al silenzio?». E mentre penso rileggo, con la fantasia, il foglio con scritto Miranda… non è assurdo?
Vedo che Miranda non ci sta a vedere il film porno sul divano di casa mia.
L?uomo giallastro ha il cazzo di manichino. La donna i capelli sudati. Io indosso la sola camicia. Miranda si nasconde come una bambinetta isterica.
La prendo. Le bendo gli occhi con un calzino. L?uomo del film sta por godere. A Miranda fa male. Estraggo. Svito frettolosamente la lampadina. Mi brucio le mani. L?uomo del video sporca il sesso della donna che tiene le gambe da insetto. Tento di avvitare la lampadina dentro Miranda. Non si può.
Sono pieno di sputo.
Mara, nel letto, era una camicia bianca che bruciava. Le spalle arroventate. Il tronco luminoso. Quando la presi, nulla. Ma subito mi avvidi che il suo sangue mi colava tra le cosce. Come una resina inodore, schiumava. E a spingere crebbe. E come cresceva, il sangue, io le guardavo gli occhi, a Mara, che le si torcevano.
Mara le ombre le vedeva insanguinate. Allargava la bocca, quando vedeva le ombre. Si rizzava sul cuscino. Se le toccava sul viso, le ombre. E si sporcava di sangue, toccandosi il viso.
«Non mi si stacca dalle mani!», gridava. Pareva che urlasse con gli occhi. «È dappertutto!». E graffiava il muro. Cercava di spellarsi le mani. Si grattava il sangue. E si strofinava la faccia con le lenzuola. Piangeva.
Mara prese a urlare il nome di suo padre: lei che il padre non lo nominava mai, quasi mai. «Perché suo padre? Lo vede attraverso le pareti?». Non capivo da che parte arrivasse il padre di Mara.
Il sangue schiumava come un animale gonfio. Non ricordo se partimmo l?indomani. Ma attraversando le montagne, nei giorni a venire, un orizzonte era talmente bello che lo fotografai. Durante il viaggio pensavo al padre di Mara. Cercavo di immaginare come era fatto, di che pasta di uomo si trattasse. E rincorrendo la figura del padre di Mara, rincorrevo mio padre. Il mio dolcissimo padre.
Mio padre è un principe invisibile. «Andiamo a trovare papà», mi diceva mia madre. E voleva intendere che andavamo al camposanto. Mio padre era lì, perché era morto che era ancora un ragazzo. E io l?avevo conosciuto dalla foto sulla tomba.
Nel cimitero scoprivo una vita vivissima: le girelle verdi degli alberi; le lapidi; la cera cotta dei lumi; le mani di mia madre e di qualche sua amica. E la tomba sottostante a quella di mio padre: con i sette bambini dalla faccia sporca di marmellata, che erano scoppiati come una bomba. E che non si trovavano più. Un bacio a mio padre e scappavo da loro. Forse sono stati i veri miei amici d?infanzia. E mentre li osservavo accendevo un fiammifero. Avevo visto anche altre foto di mio padre. In una era pure lui un moccolo piallato e vestito di grigio, ma si nota il ritocco del pennello. Mio padre certe volte da bambino scappava con la bicicletta. Si avventurava nella palude. Non avrà avuto paura di tutti quegli insetti incatalogati? E come avrà baciato mia madre, così bello con i capelli spartiti, la camicia bianca, in viaggio sul vaporetto per Capri?
Con in capelli con la scriminatura portata a sinistra come la porto io, era bellissimo mio padre in partenza per Capri. Mio padre era un tipo così: con un sorriso che non posso tanto spiegare, altrimenti non è più suo. Ho paura che si consumi. Mia madre è al suo fianco, con lui verso Capri. Non gli sta addosso. Gli si tiene accostata che sembrano partire dove sono stati un?altra volta. E in loro c?è una serenità che non si può chiamare serenità.
Eppoi mio padre sa tutto di quell?altra vita, si vede, si vede dal suo corpo. Potrebbe non partire per l?isola. Potrebbe fermarsi a sedere al primo caffè che gli capita. E sarebbe la stessa cosa. Con la giacca sul braccio. I pantaloni col risvolto.
Mio padre lo vedo camminare.
Cosa fa VITA?
Da 30 anni VITA è la testata di riferimento dell’innovazione sociale, dell’attivismo civico e del Terzo settore. Siamo un’impresa sociale senza scopo di lucro: raccontiamo storie, promuoviamo campagne, interpelliamo le imprese, la politica e le istituzioni per promuovere i valori dell’interesse generale e del bene comune. Se riusciamo a farlo è grazie a chi decide di sostenerci.