Volontariato

Solo uno snack ai diseredati (e buttato via)

Riproponiamo un interessante editoriale de Il Corriere di oggi di Fabrizio Onida

di Redazione

“Gli aiuti all’estero sono stati a volte uno spettacolare successo, altre volte un perfetto fallimento”. Con questo non tenero giudizio la Banca mondiale introduceva i risultati di una propria indagine sull’efficacia del sostegno pubblico allo sviluppo. In occasione della Conferenza Onu sul finanziamento dello sviluppo, cui partecipano in questi giorni più di 50 capi di Stato e di governo a Monterrey, sia il presidente americano Bush sia l’Unione Europea hanno preso l’impegno di aumentare gli stanziamenti in materia, che negli anni recenti sono calati a una quota decisamente bassa del proprio Prodotto interno lordo (0,33% l?Unione Europea, 0,10% gli Stati Uniti), soprattutto se rapportate ad altre voci di bilancio che hanno implicazioni internazionali. Ma che cosa sono i 5 miliardi di dollari aggiuntivi di aiuti all’estero promessi da Bush entro il 2006, a fronte dell’aumento di 48 miliardi di dollari per le spese militari statunitensi del solo 2003? Come scrive sul Wall Street Journal l’economista William Easterly (già Banca mondiale), “ho speso stamattina per uno snack da Starbucks più di quanto il contribuente americano medio paga in un anno per gli aiuti all’Africa”. Ma più che la quantità importa la qualità. Perché tanti fallimenti nella politica degli aiuti? Per due ordini di ragioni: troppi obiettivi assegnati a un solo strumento e pochi filtri di efficacia della spesa. In primo luogo, si è via via nel tempo allargata la gamma di finalità assegnate dai governi donatori a questa voce di spesa pubblica. Ai classici obiettivi di sicurezza internazionale (dal Piano Marshall agli interventi a favore di Turchia, Egitto, Israele eccetera), emergenza umanitaria, promozione dello sviluppo locale, sostegno indiretto alle esportazioni del Paese donatore, si sono aggiunte negli anni recenti finalità come la transizione verso il mercato dei Paesi ex comunisti, la prevenzione dei conflitti civili (25 su 27 conflitti registratisi nel mondo nel solo 1998!), il sostegno a nascenti regimi simil-democratici, azioni di salvaguardia transnazionale dell’ambiente. E’ chiaro che, volendo raggiungere troppi obiettivi con lo stesso strumento, tende a mancare la massa critica necessaria per incidere effettivamente sulle condizioni del Paese beneficiario. In secondo luogo, come documentano ormai molte impietose analisi condotte da esperti, studiosi e dalla stessa Banca mondiale, doni e prestiti agevolati ai Paesi poveri operano troppo spesso da palliativi, non riuscendo a intaccare le radici della povertà e dell’arretratezza perché sono erogati senza controllo sui risultati, senza soggetti intermediari competenti (le burocrazie dei donatori e del ricevente temono di essere scavalcate e criticate da quelle organizzazioni non governative che invece avrebbero le conoscenze e competenze necessarie), senza garantire le infrastrutture indispensabili alla crescita del “capitale umano” (ad esempio istruzione, assistenza sanitaria di base, comunicazione, energia), senza incidere sulla estrema povertà rurale che trattiene intere fasce di popolazione fuori dallo sviluppo e dal circuito del credito, senza stimolare la nascita di imprese piccole e artigiane, senza favorire le indispensabili riforme del quadro giuridico e legislativo atte a promuovere un mercato locale e le regole-base dei contratti proprietari. Nel peggiore dei casi, gli aiuti vanno a sostenere finanziariamente governi dispotici e profondamente corrotti (si contano casi numerosi, dall’ex-Zaire di Mobutu al Kenya di Daniel Arap Moi, allo Zambia, all’Uganda, per parlare solo dell’Africa), burocrazie parassitarie, guerre civili, crimini ambientali. Che fare? Poche cose difficili: a) selezionare i Paesi riceventi secondo la loro capacità di garantire una good governance (in questo senso un po’ di strada sembra essere già stata percorsa, guardando all’ultimo decennio); b) promuovere, accanto e attraverso gli aiuti, il commercio e gli investimenti dall’estero come arma in ultima analisi vincente per sconfiggere povertà e arretratezza, abbassando nei Paesi ricchi donatori le difese contro le importazioni dai Paesi che si vorrebbero aiutare; c) accrescere la quota di aiuti multilaterali e aiuti “non legati”, anziché usare gli aiuti bilaterali come sussidio nascosto ad affari vantaggiosi per il Paese donatore ma non necessariamente utili al Paese ricevente; d) lotta aperta alla corruzione che, come la mafia negli anni ?60 in Italia, fino a pochi anni fa era ancora una parola-tabù nei circoli che contano. Fabrizio Onida


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