Guardando al dibattito recente l’offerta imprenditoriale per i millennial è un tantino polarizzata. Per la generazione di fine 900 che è un po’ propensa e un po’ costretta a fare impresa si va dalla pizza al taglio alle startup innovative. Da una parte la retorica, che è sempre più estetica, dell’innovazione imprenditoriale per via tecnologica. Un settore che cresce, ma che rimane (e vuole rimanere) una nicchia, almeno guardando al “fenomeno dell’anno” delle startup innovative a vocazione sociale (63 imprese). All’opposto la pizza al taglio provocatoriamente, ma non troppo, evocata da Flavio Briatore come antidoto ad una narrazione della nuova imprenditoria che proprio nella risposta allo stesso Briatore gioca la carta del sarcasmo ma in realtà mostra la corda, dando di fatto ragione al boss di The Apprentice. Dunque da una parte l’impresa ad alta intensità di tecnologia e conoscenza e dall’altra l’imprenditoria di ultima istanza per i neet (che peraltro rappresentano una quota parte consistente dei millennial).
Rimane uno spazio molto ampio da riempire tra queste due polarità. Anche perché nel frattempo si sta assistendo a una rapida e massiccia riconversione delle aspettative di questa generazione rispetto al lavoro e all’impresa. In un interessante articolo di qualche giorno fa sull’inserto culturale del Corriere della Sera si citava un’indagine del sito fast company secondo la quale i millennial stanno smantellando le certezze che hanno guidato le generazioni precendenti (anche quelle a loro più prossime). Alla carriera lineare si sostituisce una filiera di progetti rispetto alla quale la flessibilità è un valore; il classico “fare soldi” viene contemperato dall’impatto sociale; le competenze tecniche sono fortemente interelate con valori, hobby, culture.
Vi ricorda qualcosa? A me il classico patchwork motivazionale che caratterizza il rapporto persona – organizzazione nel campo nonprofit e dell’impresa sociale. Il problema, posto che sia un problema, è che in un’altra indagine sugli studenti dei college americani si chiede quali siano le organizzazioni presso le quali realizzare questo tipo di prospettiva. Le risposte sono molto chiare perché a prevalere sono le grandi Corporation dell’economia digitale: Google, Linkdin e pure Amazon che pure non spicca per valore sociale (soprattutto sul fronte del lavoro). L’economia sociale “classica” risulta non pervenuta. Per carità possono esserci ragioni diverse che spiegano questo dato: la visibilità dei soggetti citati, la difficoltà di individuare chiaramente “i campioni” del nonprofit, ecc. Però rimane il fatto che questa nuova, consistente ondata, di lavoratori e imprenditori sociali rischia di non essere intercettata dal settore che, almeno in via teorica, dovrebbe mettere a disposizione le migliori risorse in tal senso.
Urge recuperare appeal. Ma come? Ripartendo dai propri fondamentali ad esempio. Nei dati Istat del censimento nonprofit scovo due potenziali bacini su cui investire: il 20% dei volontari sono under 30 (parliamo di 940mila giovani) e il 14% dei lavoratori retribuiti sono in possesso di high skills tecnico scientifiche (e probabilmente anche motivazionali). Fanno altre 170mila persone, in gran parte giovani. Volendo lo spazio per i millennial a vocazione sociale nel nonprofit c’è eccome.
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