Cultura
Solidarietà,lIslam della porta accanto
La crescita dellItalia musulmana alimenta intolleranze e paure. Ma un episodio quasi sconosciuto rivela che la collaborazione con i seguaci del Profeta è possibile. Nel 1992 le cattolicissime Miser
Schiacciata da un cielo grigio senza tempo, la Grande Moschea di Roma brulica. Bambini gravi e silenziosi, giovani donne col capo raccolto nella seta, uomini in giacca blu e cravatta sgargiante. Due figure sottili e impazienti si agitano davanti ad una porta chiusa. Parlano italiano, ma portano una lunga tunica chiara, la barba da profeta e il kajal sotto agli occhi. Hanno ciascuno un foglio bianco in mano, un pezzo di carta muta: «Io sono di Perugia e lui è siciliano. Andiamo alla Mecca, in pellegrinaggio, se Allah lo vuole. Siamo venuti a chiedere aiuto ai nostri fratelli, una lettera di accompagnamento in arabo: tanto, non sappiamo nemmeno l?inglese. Non abbiamo paura, però: ci proteggerà Allah, il Clemente, il Compassionevole, il Misericordioso». La porta in effetti si apre e i pellegrini entrano.
Già, Allah. Il ?Signore dei Mondi e Padrone del dì del Giudizio?. L?unico, vero Dio per oltre un miliardo di persone che in lui ritrovano l?essenza della solidarietà. Una solidarietà di atti religiosi, gesti quotidiani e formule economiche ma racchiusa in cinque concetti base, nei ?cinque pilastri dell?Islam?: la fede, la preghiera, l?elemosina obbligatoria, il digiuno durante il mese di Ramadan e il pellegrinaggio alla Mecca almeno una volta nella vita.
Omar Camiletti saluta i pellegrini, baciandoli tre volte e guardandoli in silenzio mentre scompaiono sotto gli archi che richiamano l?Alahambra. Invita a entrare, offrendo un té rosso alla cannella. Indiano metropolitano negli anni Settanta, situazionista a Parigi nei primi Ottanta, Omar scopre la fede della Mezzaluna e diventa uno dei responsabili delle Lega Musulmana Mondiale. «Per noi non esiste né lo Stato né l’assistenzialismo di Stato. Per l?Islam infatti uno Stato civile è inconcepibile, perché non è possibile una politica separata dalla religione. L?unica, vera solidarietà è il Corano. La ricerca dell?equilibrio e la fonte di saggezza».
Ma come funziona questa solidarietà? Vale solo per i musulmani? O anche per tutti gli altri poveri? «È? una domanda molto importante», risponde Ali Schutz, un ex anarchico ex comunista con gli occhi illuminati da Allah. Dopo la conversione È vent?anni di viaggi nel mondo arabo – «anni passati fra musiche, narghilè e preghiere nel deserto» – Ali è tornato a Milano dove ha aperto il ?Fondaco dei Mori?, un ristorante che è piuttosto un centro culturale, un punto di riferimento per tutta la comunità islamica milanese. «Ci siamo posti questo problema da quando i musulmani sono presenti come minoranza nei paesi occidentali. I poveri infatti sono poveri, indipendentemente dal loro credo: per ora però abbiamo deciso di dare risposte soltanto a quelli musulmani».
Una scelta netta, come tutte quelle di chi si riconosce nella strada del Corano. Una decisione però che per Ali non ha inciso e non inciderà sulla collaborazione invocata dal Papa. Anzi. «L?invito di Giovanni Paolo II è in qualche modo partito da noi, anni fa. Durante la guerra di Bosnia volevamo aiutare i musulmani bosniaci e ci rivolgemmo all?ex vescovo di Siena, Mario Ismaele Castellano, che sapevamo sensibile alla collaborazione. Castellano ci aprì tutte le porte, ci mise in contatto con le Misericordie di Firenze che ci fornirono molte ambulanze e seguì tutta l?iniziativa. Un atto incredibile, offerto ai musulmani da un vescovo cattolico e un?organizzazione confessionale. Un gesto che ruppe molti dei nostri schemi, dei preconcetti verso il cattolicesimo: facendoci scoprire un nuovo modo di essere guardati».
Il Papa tutto questo lo sa. «Benedisse quel viaggio perché conosce i preconcetti, le paure, i limiti degli uni e degli altri», conferma monsignor Castellano, oggi convalescente dopo una piccola operazione.
Ombre che nascono dalla storia ma soprattutto dall?ignoranza, quella dei musulmani che non sanno quasi niente dei cattolici e degli italiani che vivono da anni porta a porta con un milione di islamici senza sapere troppe cose. Per esempio che l?infibulazione non è una pratica islamica, ma anche che Islam significa ?pace? e ?abbandono? alla volontà di Dio.
La solidarietà islamica è sostanzialmente questo abbandono religioso, questa remissione o autoconsegna a Allah in tutto e per tutto: compreso nel lavoro, perché il musulmano realizza la propria religiosità anche nella dimensione materiale. ?Chi segue la strada del Profeta trova benessere anche in terra? recita il Corano, per dire che l?uomo d?affari onesto è paragonabile ?ai profeti, ai santi, ai martiri?. Il lavoro nell?Islam diventa quindi una strada per la redenzione, una via di salvezza e di benessere che lo Stato ha il dovere di non ostruire. Illuminati da questa educazione, gli islamici sbarcano in Italia vivendo le regole sindacali come un intralcio, una vessazione della libertà individuale e religiosa. L?orario di lavoro è il primo problema, un?idea che per un musulmano non ha senso: «Perché non poter lavorare dalle sette di mattino alle dieci di sera se si vuole? Perché non poter far lavorare un fratello che mi chiede aiuto? Perché essere costretto a pagargli i contributi se lui stesso non li vuole, visto che il suo desiderio è soltanto tornare nella sua terra? Se assumo un dipendente sarò costretto a pagare più tasse, col risultato che rischio perché lo faccio lavorare lo stesso come mi impone la mia religione». Sono parole di Muhammar Ajidh, un egiziano a Roma da anni che fa lavorare tre suoi fratelli perché così è scritto da Allah. «No, la legge italiana non fa bene al commercio, e non capisce il nostro tipo di solidarietà che aiuta chi non lavora».
La disoccupazione per l?Islam non è un problema che può essere delegato allo stato di diritto – concetto inesistente per il Corano – ma deve toccare la dimensione di ogni singolo soggetto della Umma, la comunità dei fedeli. «Alla base di ogni rapporto di lavoro c?è il precetto religioso solidale del Corano», sorride accattivante Omar, «colui che mangia a sazietà mentre il suo vicino è ancora senza cibo non è un credente». La disoccupazione e la miseria vengono così sconfitte dalla famiglia, dai parenti, dal clan. Per questo nelle decine di negozi e ristoranti musulmani disseminati ormai da Torino a Trapani i commessi e camerieri superano spesso i clienti: perché anche se guadagnano soltanto 25.000 lire al giorno e dividono una camera in sei, almeno riescono a vivere. «Questo non è sfruttamento, ma solidarietà».
Lo sfruttamento del resto è immorale, perché il guadagno non appartiene all?uomo ma a Dio. «Il tempo è di Dio e l?uomo non può lucrare su ciò che non gli appartiene», aggiunge Omar divenuto improvvisamente serio. «Il guadagno deve essere faticato per essere giusto, dunque l?usura è il peccato capitale, come peccato sono gli interessi sul capitale e tutti i guadagni ottenuti senza fatica, sfruttando quel tempo che non appartiene all?uomo».
Tutte le cose nell?Islam appartengono a Dio, che le affida temporaneamente alle donne e agli uomini. I quali devono continuamente purificare questo dono cedendo una parte dei loro guadagni ai bisognosi: è la zakât, una parola che significa sia purificazione che crescita. «Una specie di potatura, un taglio parziale che permette alla pianta di crescere più rigogliosa: corrisponde al 2,5 per cento del proprio capitale annuo, una specie di disincentivo etico all?accumulazione della ricchezza fine a se stessa». Una persona pia comunque può dare sempre quello che vuole, in modo riservato però, come sadaqa, carità volontaria che risale all?insegnamento del profeta.
Ma anche nell?Islam la messa a frutto del denaro esiste: semplicemente è diversa. È una via che associa il creditore al rischio d?impresa del debitore, in modo da eliminare la distinzione tra ozio parassitario e lavoro produttivo creando strumenti finanziari. Alcuni originali – come la mudaraba e la musharaka, con cui si fornisce al cliente il capitale per un?impresa, che ci rimette nel primo caso il lavoro, nel secondo anche un po? di soldi – oppure simili a quelli occidentali: la igara – una forma primitiva di leasing – la hisabat e la amwal – tipi diversi di fondi di investimento.
«La vera solidarietà però, quella che resta la più importante per Allah, è lo stare insieme, l?essere religiosi insieme?. Baha Grewati, medico omeopata e presidente della Casa di Cultura Islamica di Milano non ha dubbi. E? un uomo dolce e gentile Baha, «un santo che dona anche trenta milioni in zakât, molto di più di quanto previsto dalla legge». Baha ascolta e a ogni domanda risponde chiaro e sereno. «L?Islam risolve i problemi. Il Corano trova la risposta a tutte le domande: perché è regola pratica, non teoria. Regola che basa tutto sulla solidarietà e sull?amore. Tutti nell?Islam si preoccupano di tutti perché questo è il salat. La solidarietà dell?uomo verso Dio e verso l?altro nella preghiera?. Parola di Allah
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