Non profit
Solidarietà digitale. Il terzo settore e l’Intelligenza Artificiale
L'Intelligenza Artificiale è stata finora pensata in ambiti commerciali e produttivi (l'Industria 4.0). Il Pnrr allarga lo spettro alla Pubblica amministrazione: digitalizzare le procedure d'accesso e gestire i milioni di dati che intercorrono tra il cittadino e l'ente pubblico, dall'identità digitale al fascicolo sanitario elettronico, per esempio. È possibile pensare ad un'IA utile anche al terzo settore?
Il Pnrr prevede la digitalizzazione del Paese. In realtà si parte da una posizione… favorevole: l’Italia è al 25esimo posto in Europa per livello di digitalizzazione (DESI, 2020), a causa di più fattori, dalla limitata diffusione di competenze digitali alla bassa adozione di tecnologie avanzate, tipo le tecnologie cloud, si scrive sul documento del Pnrr. Dunque migliorare non sarà difficile. Digitalizzare il Paese significa diffondere e usare gli strumenti di Intelligenza artificiale, che consentono di riformulare processi, procedure, azioni, condotte e tutto quanto abbia sequenze ordinate e calcolabili. Ma per capire bene tutto questo bisogna allargare il nostro pensiero, essere perfino controintuitivi, considerare anche cose che istintivamente non apparirebbero calcolabili, riproducibili. Yuval Harari sostiene che l'IA supera le prestazioni degli esseri umani perfino in quei compiti che prevedono l'uso dell'intuizione, perché essa è comunque creata da miliardi di neuroni che calcolano una soluzione di probabilità in una frazione di secondo. Dunque si può hackerare l'essere umano, clonare il suo modo di pensare e di esprimere i bisogni. Un modo un po' rozzo ma efficace lo dimostra quotidianamente Google, proponendoci cose e notizie a seconda di chi siamo, di dove siamo e di cosa abbiamo cercato col suo aiuto. A volte hai perfino l'impressione che Google ti conosca meglio di tanti altri umani: per esempio quando trovi del tutto interessante e necessario il nuovo libro che ti propone in offerta speciale.
Ma torniamo a noi. L'IA è stata finora pensata in ambiti commerciali e produttivi (l'Industria 4.0). Il Pnrr allarga lo spettro alla Pubblica amministrazione: digitalizzare le procedure d'accesso e gestire i milioni di dati che intercorrono tra il cittadino e l'ente pubblico, dall'identità digitale al fascicolo sanitario elettronico, per esempio. È possibile pensare ad un'IA utile anche al terzo settore? Alcune cose esistono già, mentre su altre ci si può ragionare. Ogni ente dovrebbe tenere accesa una spia: in che misura l'IA può facilitare gli scopi che intendiamo perseguire? Pensiamo alla povertà: in che misura un'organizzazione di contrasto alla povertà può godere dei benefici dell'IA? Mi pare che gli ambiti possano essere almeno tre.
Il primo è il più ovvio e il più usato, finora: portali web per visibilità, per informazioni, pratiche e procedure, e poi profili sui social network per diffondere sensibilità e idee, per informare sugli eventi e raccogliere iscritti e fondi. Direi che, a questo livello, la digitalizzazione ormai funziona. L'accelerata effettuata durante il tempo di pandemia ha creato eventi online ai quali iscriversi con flessibilità e tu vai agli eventi che ti interessano, ma Facebook fa anche di più: fa in modo che siano gli eventi che ti interessano a venire a te. L'algoritmo di Facebook ci ha profilato ed è in grado di proporre sia eventi pubblici sia campagne di fundraising. Come si ottengono questi milioni di profili delle utenze dei social media? Siamo reduci dallo scandalo Cambridge Analytica e sappiamo che i dati – 2,3 miliardi di utenti: quando si dice i big data… – sono profilati e possono essere oggetto di campagne mirate. Ciò che serve, allora, è una informazione trasparente in grado di selezionare determinati profili sulla base di alcune variabili che, anche senza identificare i nomi, consenta per scopi sociali dichiarati leciti e legittimi di diffondere le informazioni in merito ad eventi, campagne e raccolta dei fondi. È importante difendere la privacy però, iscrivendosi ad un social network, è anche vero che può interessare la publicity, ossia l'opportunità di essere tenuti aggiornati e informati di quanto accade in merito ad un determinato argomento, issue, action, campaign. È su questi presupposti che si basa un sano crowfunding. Esso non può essere riservato solo alle grandi charity organization, ossia a chi può permetterselo per potenza finanziaria o tecnologica: deve essere accessbile a tutti, secondo norme condivise, secondo un'etichetta trasparente. La trasparenza dei target obbligherebbe alla trasparenza delle intenzioni. La responsabilità sociale d'impresa si esercita anche consentendo l'uso collettivo intelligente dei dati. I dati sono un bene comune “consegnato” dai cittadini alle piattaforme dei social network: come se ne consente l'uso commerciale, se ne consenta allora l'uso anche per accrescere la conoscenza del capitale sociale diffuso, per creare occasioni di partecipare ad azioni sociali o a progetti solidali. Per fare engagement, insomma: creare dialoghi e legami attraverso il digitale.
Il secondo uso potrebbe concernere il monitoraggio e la predizione dei bisogni sociali aggregati. I dati esistono, ci sono, non si può negare questa realtà. Nel Pnrr si parla del principio “once only”, ossia del fatto che le informazioni sui cittadini – una volta date – siano a disposizione “una volta per tutte” alle Amministrazioni pubbliche in modo immediato, semplice ed efficace, alleggerendo tempi e costi legati alle richieste di informazioni oggi frammentate tra molteplici enti. Come si scrive nel Piano, l'interoperabilità dei dataset della PA significa garantire un’esposizione automatica dei dati/attributi di cittadini/residenti e imprese da parte dei database sorgente (dati/attributi costantemente aggiornati nel tempo) a beneficio di ogni processo/servizio “richiedente”. In sostanza si verrà a creare – si architetta – una Piattaforma Nazionale Dati che offrirà alle amministrazioni un catalogo centrale di “connettori automatici”. Allora proviamo ad immaginare cosa potrebbe essere il saper processare i dati di una comunità, di un Comune, di un quartiere, di un distretto, per rilevare i bisogni che emergono e quelli emergenti – sui quali approfondire con ricerche ad hoc -, l'efficacia delle politiche messe in atto e la loro proiezione su una calcolabile prospettiva di medio termine.
Abbiamo a disposizione variabili di ogni tipo, dal sesso all'età, dal titolo di studio al reddito, dalla composizione familiare alle patologie (anche familiari), dagli acquisti di farmaci agli acquisti tracciabili, dalla propensione al consumo alla spesa media, dai sussidi pubblici alle tasse pagate per determinati servizi, dalle multe e dai reati commessi ai consumi culturali (Netflix, Spotify…). Non è impossibile trarre un modello di malessere/benessere che consenta di mettere in luce i punti di forza e i punti deboli della comunità: forse alla giunta comunale apparirà meno discrezionale il fatto di scegliere di finanziare un asilo-nido piuttosto che la sagra della ciliegia o un corso di educazione allo sport… Almeno apparirà ragionevole, connesso ad una architettura socio-economica che dà alcuni segnali, che lascia tracce. Ha fatto notizia l'entrata di Vital nel CDA di un'impresa di Hong Kong (che – per inciso – si chiama Deep Knowledge Ventures): Vital è un algoritmo, ha un suo diritto di voto in Consiglio (ha già approvato un paio di investimenti) e ragiona molto velocemente. Questo è uno scenario da scongiurare, certo. Eppure ci lascia una considerazione interessante: usare l'intelligenza artificiale per valutare fatti umani – in questo caso finanziari – è pratica di una certa utilità. Possiamo creare una versione sociale? I dati ci sono. Sono sicuro che si aprirebbe un dibattito sul frame, ossia su cosa possa essere modellizzato e considerato “bene” piuttosto che “male”. Ma, in fondo, l'etica politica esiste proprio per questo. E qui l'IA non ci servirà.
In altre parole, geolocalizzare la povertà, la fragilità, la sofferenza è comunque un fatto positivo, e comunque è una possibilità tecnologicamente disponibile: perché non si utilizza? Lo è anche disporre di un credibile modello predittivo di evoluzione sociale. Noi oggi abbiamo abbastanza contezza per affermare che in futuro i bisogni sociali aumenteranno. Lo diciamo perché – ragionevolmente – osserviamo l'aumento della popolazione anziana, la continua complessificazione delle patologie sociali (a partire dagli adolescenti), la certezza che – in assenza di una maggiore stabilità politica internazionale – le migrazioni continueranno ad esserci. Detta in modo così rozzo questa predizione consente di fare alcune cose, di tenere aperto uno spettro di possibilità fin troppo vasto. Ma conoscere in modo più approfondito le situazioni e le connessioni interne consente di predisporre la governance dei fenomeni. Si tratterebbe di passare dall'emergenza alla progettazione: anzi, alla co-progettazione, visto che il rapporto tra ente pubblico e terzo settore si gioverebbe di questa rete di informazioni a sostegno della rete di protezione sociale che si sta cercando di creare.
Infine – terzo punto – l'IA si interfaccia al terzo settore chiedendo una diffusione popolare. La drammatica vicenda della pandemia ci dice l'uso di macchine per lo smart working, per l'e-school e l'e-learning, per lo Spid o per la prenotazione di visite, di vaccini o di altre varie pratiche chiedono una buona competenza digitale. Ora la scuola consentirà ai più giovani – che, peraltro, sono nativi digitali – di appropriarsi di queste tecnologie. Ma le altre generazioni necessitano di un buon accompagnamento, di una alfabetizzazione popolare, che consenta alla velocità tecnologica di essere addomesticata dal lavoro sociale, popolare, comunitario. La velocità di questi processi non facilita neppure una valutazione etica degli strumenti e degli scopi per cui questi strumenti esistono.
Non possiamo derubricare la morale dalla tecnologia: sarebbe un abbandono in nome di un progresso senza direzione, afasico e smarrito. Non dobbiamo delegare in bianco alla tecnologia la scelte legame civile. La tecnica – ben sappiamo – è soprattutto un contesto, un design. Pertanto la solidarietà che ne deriva, il legame sociale che si genera, non può essere incontrollato, privo di una essenza valoriale. Proprio per questo è bene che l'Intelligenza artificiale sia accompagnata dalla crescita di una Intelligenza sociale collettiva. Il terzo settore, accompagnando giorno per giorno e territorio per territorio, l'introduzione di questi “macchinari”, ha l'occasione per renderli occasione di riflessione. Un terzo settore riflessivo aiuta anch'esso il bene comune. La formazione è un diritto e un dovere: in questo caso è anche un'opportunità collettiva per riscrivere una grammatica utile al nostro tempo. Sarà senz'altro una grammatica digitale, ma faremo in modo che sia anche valoriale.
*Roberto Rossini, portavoce dell'Alleanza Contro la Povertà
Cosa fa VITA?
Da 30 anni VITA è la testata di riferimento dell’innovazione sociale, dell’attivismo civico e del Terzo settore. Siamo un’impresa sociale senza scopo di lucro: raccontiamo storie, promuoviamo campagne, interpelliamo le imprese, la politica e le istituzioni per promuovere i valori dell’interesse generale e del bene comune. Se riusciamo a farlo è grazie a chi decide di sostenerci.