Non profit

Social women

Ormai un dirigente su tre del nostro terzo settore è donna

di Gabriella Meroni

La presenza femminile è accentuata nella cooperazione sociale, specie al Sud, e in crescita anche nelle associazioni. Ecco le loro storie fatte di tanto lavoro e tanta famiglia Vivere la solidarietà in modo totalizzante, senza rinunciare a lavoro e famiglia; privilegiare il rapporto con le persone ed essere allo stesso tempo idealiste quanto basta e concrete quanto serve. Sgomitare, ma sapere anche farsi da parte. E infine: saper collaborare e condividere, che è poi quanto di meglio la natura abbia regalato alle donne. Sono queste alcune delle sfide che si trovano ad affrontare le presidenti, direttrici o responsabili delle non profit. Che non saranno tantissime, ma stanno crescendo e, a giudicare dai trilli dei telefoni e dal brusio di voci che hanno accompagnato ogni conversazione, sicuramente sgobbano come e più dei loro colleghi maschi.

Le cifre, per cominciare
Secondo una ricerca Aiccon del 2008, in Italia in media il 33,5% dei dirigenti del terzo settore è donna, con una punta di eccellenza per le cooperative sociali (45%, soprattutto al Sud) e il fanalino di coda delle associazioni (20%), mentre l’indagine Iref del 2006 ha stabilito che, nei quattro anni dal 2002 al 2006, la quota femminile nelle associazioni è cresciuta di ben 10 punti, passando dal 36 al 46%. «Una donna che raggiunge un incarico di responsabilità va alla carica come un ariete, difficile che qualcuno la fermi»: sembra proprio parlare di sé Roberta Amadeo, 39 anni, presidente di Aism dal maggio del 2007. Lei che, sportiva ed entusiasta, scoprì a 22 anni di essere malata di sclerosi multipla e oggi è in carrozzina, è stata scelta proprio perché donna, perché «la maggior parte delle persone malate, come me, è di sesso femminile, così come la maggior parte delle ricerche finanziate da Aism sono portate avanti da scienziate». Ma non solo: «Le donne si muovono meglio nel non profit perché assomiglia loro: l’uomo va a lavorare soprattutto per i soldi, la donna ha sempre lavorato quanto i maschi, ma non essenzialmente per il denaro. Quello che le interessa sono le relazioni».
«Sì, le donne hanno un diverso approccio alla vita», aggiunge Claudia Fiaschi, presidente del gruppo Cgm dallo scorso giugno, «e non è un caso che il mondo cooperativo abbia consentito loro di prendersi molto spazio: nelle coop sociali di tipo A siamo ormai all’80% di presenze femminili. Collaborare, cooperare è il modo di lavorare che abbiamo nel dna, mentre gli uomini non riescono a staccarsi dal modello di leadership individuale». Già, poverini. Però questo individualismo ha permesso all’uomo di affrancarsi da una serie di obblighi familiari che invece portano ancora oggi le donne a una difficile conciliazione tra casa e lavoro? «Sempre meno difficile», ribatte la Fiaschi, «perché oggi le donne chiedono molto di più ai loro uomini, si aspettano giustamente da loro un contributo sostanziale alla vita della famiglia e all’organizzazione della casa. Una volta le donne dovevano portare tutto sulle loro spalle, adesso hanno imparato a dividere i pesi».

Nessuna resa
Anche quando i pesi sono notevoli, come nel caso di Cristina Nespoli, ex presidente della Cnesc (la Conferenza nazionale enti per il servizio civile), oggi vicepresidente e responsabile adozioni dell’associazione Enzo B, madre di cinque figli. «Ho mollato la Cnesc perché mi piace essere tutta intera in quello che faccio», confessa, «e quel ruolo, così istituzionale, mi assorbiva al punto da trascurare la quotidianità. Così ho scelto di lavorare con le persone, non con le strutture». Detta così, non sembra una resa. «Infatti non lo è», continua la Nespoli, «perché mi ha permesso di continuare a seguire l’obiettivo della mia vita, che è costruire qualcosa per gli altri». Signori, ecco l’approccio delle donne. O no? «No, io parlo per me, le donne che incontro sono spesso competitive e ambiziose, solo che molte scelgono il non profit perché sa adattarsi alle loro esigenze».
E le donne anche qui sanno conquistarsi gli spazi e difenderli, come racconta Aurora Di Lenola, 35 anni, responsabile del settore Giovani dell’Avis, mamma di una bambina di un anno. «Quando sono rimasta incinta alcuni dirigenti mi hanno paventato, senza ben inteso mai mettermi alla porta, di farmi da parte», racconta, «ma io ho resistito, incoraggiata da altri dirigenti ma soprattutto da molte ragazze dell’associazione. Mi dicevano: rimani, se lo fai tu possiamo pensare che è possibile. E così sono qui». Aurora lavora (fa l’impiegata), dedica molto tempo ad Avis, ha un marito e una figlia piccola: rischi di burn out? «Non è facile», risponde, «ma ho al mio fianco persone che capiscono il mio impegno. Quando sono stanca penso: ma se il volontariato perde i giovani, e soprattutto le ragazze, dove va?».
Eppure, c’è chi il domani lo aspetta senza ansie, pur avendo vissuto un “ieri” fatto di 26 anni ininterrotti di presidenza dell’Aisac, l’associazione per l’informazione e lo studio dell’acondroplasia: è Donatella Valerio Sessa: «Discriminazione? Leadership maschile? Ma dove? Io vedo uguaglianza, pari opportunità ed equa suddivisione di generi», afferma sicura. «A questa storia della diversità di talenti non ci credo». All’Aisac però la maggioranza è fatta di donne? «Non la maggioranza, siamo proprio tutte donne. Ma che c’entra? È solo un caso?».


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