Formazione

Slatko & C. sconfitti solo dalla guerra

Si chiamano Slatko, Andrej, Sdravko, Ermin, Boro e sono serbi, croati, musulmani. Un tempo giocavano insieme nel grande Borac, la più forte équipe di pallamano dei Balcani.

di Carlotta Jesi

Prima che la Jugoslavia perdesse la stima di sé c’era a Banja Luka una squadra di pallamano che inorgogliva la città. In ogni parte d’Europa tutti invidiavano il Borac, che dalla sua fondazione, nel 1950, aveva vinto 34 tornei internazionali e dato otto campioni alla nazionale olimpica. Oggi Slatko Saracevic, capitano della nazionale croata, accoglie le squadre avversarie che arrivano a Zagabria per gli europei di pallamano. Campioni ucraini, tedeschi, francesi e spagnoli che della guerra in Bosnia conoscono poco. E non credono ai loro occhi: ma Slatko non era il fuoriclasse che nel 1986 ha conquistato la coppa del mondo coi colori della Jugoslavia? La stella del Borac di Banja Luka? Sì. Ma molto tempo fa. Prima che capitan Saracevic, di madre croata e padre mussulmano, fosse costretto a cambiare patria per sopravvivere alla violenza serba. Prima che il Borac di Banja Luka, la squadra più forte d’Europa, diventasse il fantasma di se stesso. E di una Jugoslavia distrutta dai conflitti etnici che gli accordi di Dayton hanno ricostruito a tavolino. Separando per sempre serbi, croati e mussulmani che una volta giocavano insieme nel Borac. Un giorno, all’improvviso, l’inferno «Un giorno, all’improvviso, i serbi hanno fatto saltare le 16 moschee di Banja Luka», racconta Saracevic, «urlando per le strade che delle due chiese cattoliche, una era di troppo». È stato allora che la sua famiglia ha fatto le valigie in fretta e furia scappando in Croazia e lasciando la squadra da un giorno all’altro. Un doppio addio, molto doloroso. Per Slatko ma anche per suo padre Hamdija, il primo Saracevic a giocare per il Borac e la nazionale jugoslava. Che a quella croata, oggi guidata da Slatko, ha regalato altri tre grandi campioni di pallamano: Irfan Smajlagic, Patrick Cavar, Iztock Puc. Anche loro ex giocatori del Borac, anche loro fuggiti da Banja Luka per non essere ammazzati. «Di quei giorni non riesco ancora a parlare, ho troppa tristezza e nostalgia nel cuore», confessa Smajlagic. Campione croato di fede mussulmana che affida a Slatko il compito di raccontare cosa ne è stato del Borac. «Oggi ho 39 anni», risponde il capitano, «e finalmente di ciò che pensano quelli di Banja Luka non mi importa più. Si sono presi i miei parenti e Banja adesso è considerata la capitale della Repubblica serba, inaccettabile. È Bosnia, punto e basta». Bosnia Herzegovina, per essere esatti. Creata il 21 novembre del 1995 a Dayton e divisa quasi a metà: 49% del territorio alla Repubblica Serba e 51% alla federazione Croato-Mussulmana. Un Paese ancora pattugliato da circa 30 mila soldati delle Nazioni Unite che al Borac cerca di non pensare troppo, ma senza riuscirvi. I cugini nemici Proprio come accade a Momo Golic, cinquantatreenne segretario generale del Borac. Che per non prendere le armi durante la guerra ha usato la malizia, fingendosi malato. «Sono stato epilettico, miope e, quando non bastava più, ho convinto i medici a dichiarare che il mio stato di salute non consentiva di impugnare il mitra», spiega. Ricordando come, per quattro lunghi anni, lui che aveva le gambe più robuste di tutta Banja Luka, è riuscito a far finta di zoppicare per non andare al fronte. Momo aveva capito in fretta che il Borac non sarebbe mai più stata la stessa squadra, ma continuava ad essere convinto che Serbi, Mussulmani e Croati avessero la stessa importanza e gli stessi diritti. Anche quando, ricorda, «Un pittore mussulmano stava per essere cacciato dal comune coi pennelli in mano e io, bonariamente, chiesi che tipo di futuro e lavoro si voleva offrire ai mussulmani e croati che sarebbero restati. “Intanto scavare un tunnel di 500 metri, poi vedremo cosa fare di loro”, mi risposero». Ma Momo non smise di credere nei principi per cui la squadra si era battuta. E non lo fa neppure oggi che suo figlio Nebosja, giocatore della nazionale di pallamano jugoslava, ai campionati europei deve scontrarsi col cugino Andrej Golic, scappato da Banja Luka e oggi stella nascente della nazionale francese. «Qui in Croazia evito di fare riferimento a Banja Luka, è una parola tabù», spiega Andrej. «Politicamente scorretta, proprio come la Repubblica serba. E quando vedo i vecchi amici del Borac, evitiamo di parlare del passato per non offenderci». Si gioca, sì. Ma con un po’ di sospetto, aspettando di continuo il prossimo gesto dell’altro. La diaspora dei campionissimi Un panorama sportivo che la maggior parte delle persone giunte in Croazia per gli europei stentano a capire. E forse anche gli stessi protagonisti di questa storia. Compreso Sdravko Radenovic, che fu eletto miglior giocatore del mondo quando giocava nel Borac e non si è rassegnato tanto facilmente a vedere morire giorno dopo giorno la sua squadra. Ha chiesto dei soldi ai nuovi ricchi della città per rimettere in sesto il Borac e rimpiange i giorni in cui a Banja ci si poteva sposare tra croati, serbi e mussulmani. «Credevamo che nessuno avrebbe mai potuto cancellare le nostre vittorie, questo urlava Slatko. Che per me è e resterà sempre un campione di qui». Anche se in molti a Banja Luka lo considerano un traditore. Fuggito da una città che prima della guerra era formata per il 40 per cento da Croati di cui oggi rimane meno del 5 per cento. Fuggito da una squadra che oggi conta solo un campione croato prossimo alla pensione e ha perso l’ultimo mussulmano pochi giorni fa. Se ne è andato anche Ermin Velic, il più grande portiere del Borac che ormai è francese a tutti gli effetti. «Già, Ermin», scherzano a Banja, «una volta nessuno sarebbe riuscito a fargli mangiare carne di maiale. Oggi, chissà». E dello stesso tono sono le battute riservate agli allenatori del Borac emigrati in Spagna, Germania, Francia e Belgio. Tra di loro c’è anche Boro Golic, fratello maggiore di Momo e allenatore della squadra di pallamano di Nimes. «Ho nostalgia più dei compagni croati e mussulmani che della Jugoslavia», racconta. «Ma ormai sia Banja Luka che il Borac di una volta sono scomparse». Niente più matrimoni misti, niente più sportivi olimpionici, niente più orgoglio vero. Quello che invece di separare unisce. Come è potuto succedere tutto questo? A Banja nessuno lo dice apertamente, ma per molti l’inizio della fine è stato quando al Borac ha cominciato a interessarsi Radovan Karadzic, il capo dei serbi di Bosnia nelle fasi più atroci e più cruente della guerra che oggi si nasconde in qualche angolo del Paese. Per la gente è solo un “macellaio psicopatico”, ma i vecchi della squadra lo ricordano bene. «Cosa avremmo potuto fare contro quel pazzo?», alza le braccia al cielo sconsolato Momo Golic. Una risposta non l’ha neppure Slatko Saracevic, che per la bandiera Croata ha continuato a vincere medaglie d’oro e olimpiadi. Non ce l’hanno i pochi rimasti a Banja e forse neppure chi sulla guerra di Bosnia pensava di aver messo una pietra definitiva a Dayton. Una pietra che non c’è voluto molto per risollevare: è bastato un campionato europeo. E se non le armi, della Bosnia divisa sono tornati a galla rancori, tristissimi ricordi e storie di vecchi compagni che oggi hanno cuori e passaporti diversi. La Bosnia Herzegovina di oggi, insomma. Che ha un’unica moneta e anche una nuova capitale, Sarajevo. Ma che dire della sua anima? Dei campioni jugoslavi temuti dal mondo e della dignità dei suoi abitanti? «Non sono che l’ombra di se stessi», bisbigliano in questi giorni i campioni di pallamano di tutto il Vecchio continente. Che certo non pensavano di dover affrontare, tra le altre nazionali, anche una fortissima e inquietante squadra di pallamano fantasma.


Qualsiasi donazione, piccola o grande, è
fondamentale per supportare il lavoro di VITA