Non profit
Sindrome di Down, la vera malattia è l’assenza di lavoro
Le difficoltà di inserimento e le ricette della cooperazione sociale
di Redazione
Ancora bassa l’iscrizione alle liste del collocamento obbligatorio. Legacoopsociali: «La legge 68/1999 è rimasta troppo spesso sulla carta». Federsolidarietà: «Semplificare le regole e valorizzare il ruolo
della cooperazione»
«Un fatto è certo: per le persone affette dalla sindrome di Down, entrare nel mondo del lavoro è molto difficile. Infatti, il numero di chi ha un impiego è inferiore a chi è effettivamente in grado di lavorare». Parola di Alessandra Buzzelli, responsabile dell’Osservatorio sul mondo del lavoro dell’Aipd – Associazione italiana persone down. A complicare le cose ci si mettono anche i pregiudizi che circondano queste persone. E come se non bastasse, anche i Centri per l’impiego non riescono a collocarle in modo omogeneo su tutto il territorio nazionale. Le persone down iscritte ai Centri per l’impiego nelle liste del collocamento obbligatorio, come previsto dalla legge 68 del 1999, risultano essere appena il 16%.
Il dato, non certo incoraggiante, viene fuori da una ricerca sulla formazione e sull’inserimento lavorativo delle persone con sindrome di Down, curata dal Gruppo di lavoro sull’inserimento lavorativo del Coordinamento nazionale delle Associazioni down (questionario inviato a 66 associazioni per un campione di 1.167 persone maggiorenni). Però, sempre dalla stessa ricerca, risulta che le associazioni sono sensibili al tema; infatti, il 36% di esse ha al suo interno un referente che si occupa dell’inserimento lavorativo e il 73% ha avviato iniziative in tale direzione. «Non per tutti è possibile realizzare un inserimento nel mondo del lavoro ordinario, però sicuramente», afferma Buzzelli, «Aipd e le altre associazioni privilegiano questo aspetto».
Per sensibilizzare l’opinione pubblica l’Aipd ha lanciato una campagna pubblicitaria, visibile sul sito www.aipd.it, che ha come slogan: «Siete riusciti a distinguere i lavoratori con sindrome di Down? Neanche noi. Assumiamoli». Secondo Aldo Moretti, psicologo e direttore scientifico del Cepim – Centro italiano down: «Bisogna partire dal presupposto che questa sindrome è una disabilità complessa. Noi non possiamo cambiare l’intelligenza della persona ma possiamo incidere positivamente sulle sue abilità sociali, relazionali, comportamentali e di apprendimento, accompagnando la persona e la sua famiglia fin dal momento della nascita, costruendo, attraverso un percorso serio di formazione e tirocinio, un individuo maturo per il mercato del lavoro». Quindi la strada giusta è quella di rinforzare la ricerca di lavori sempre più qualificati e qualificanti, spezzando il pregiudizio che i disabili possano svolgere solo mansioni semplici. Il Cepim ha un servizio specifico per l’integrazione lavorativa composto da operatori specializzati, definiti “mediatori al lavoro”, i quali collaborano con l’azienda per inserire i ragazzi down nel settore giusto e continuano a seguirli anche dopo che sono stati assunti.
Nonostante questa esperienza positiva, il problema di trovare un’occupazione a questa categoria di persone resta. Sergio D’Angelo, vicepresidente di Legacoopsociali, punta il dito sul fallimento della legge 68/99, che è ed è stata troppo poco rispettata. Ma sottolinea che la cooperazione riesce comunque a collocare migliaia di persone in difficoltà e snocciola le cifre: «Sono 32mila i soci svantaggiati su un totale di oltre 260mila occupati nella cooperazione sociale. I down forse sono stati meno intercettati, perché per loro non c’è una tradizione diffusa di reti sociali, come avviene per gli altri soggetti». Nel mondo della cooperazione vengono applicati contratti a tempo indeterminato (80%), non a progetto perché si perderebbero i benefici di legge sugli sgravi dei contributi previdenziali; semmai si usa una flessibilità oraria (part time) in relazione al carico di lavoro che le persone down possono sopportare. «Negli anni si è creata una stratificazione normativa che ha complicato le cose», sostiene Vincenzo De Bernardo, coordinatore di Federsolidarietà, il quale aggiunge che «si dovrebbe, al contrario, lavorare in due direzioni, l’una diretta a semplificare le regole, rendendole più efficaci, e l’altra finalizzata a valorizzare il ruolo della cooperazione. Non guasterebbe realizzare una contrattualistica che tenga conto delle possibilità di questi soggetti».
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