Non profit
Silicon Valley va all’assalto del non profit
Più degli assegni vogliono usare il cervello, snobbano le grandi organizzazioni e scelgono i piccoli gruppi con poche spese.
Riportiamo la traduzione di un articolo apparso sul numero di settembre di Wired, mensile americano dedicato agli ultimi trend economici e tecnologici, che ha scatenato una vera e propria battaglia ideologica negli Usa. Da una parte ci sono i trentenni della Silicon Valley che, arricchitisi con l’hi-tech, lanciano un nuovo modo di fare filantropia ribattezzato «venture philantropy». Dall’altro i tradizionalisti che gestiscono milioni di dollari e guardano con sospetto una generazione che pensa di poter risolvere tutti i problemi sociali applicando alla filantropia le tecniche con cui ha avuto successo nel business. È uno spunto di riflessione che “Vita” fornisce ai lettori per cominciare a discuterne.
A Los Altos Hills sono le sei del pomeriggio, e una settantina di imprenditori della Silicon Valley si aggira nel parco della casa di Kevin Fong, venture capitalist della Mayfield Fund.
Tra un brindisi e l’altro Fong fa tintinnare il suo bicchiere ed apre il primo incontro della Silicon Valley Social Venture Fund (SV2), un gruppo di neo filantropi che, per la verità, sui meccanismi del donare agli altri non hanno le idee molto chiare. Ma sono qui, e ciò significa che il progetto, per lo meno, interessa. Questa sera a ciascuno di loro verrà chiesto di firmare un assegno di 2.500 dollari, una specie di dimostrazione delle loro buone intenzioni.
Steve Kirsch, uno dei pochi mogol di Internet già conosciuto per la sua generosità (l’anno scorso insieme alla moglie ha donato circa 5. 7 milioni di dollari), si avvia in mezzo al prato e comincia a raccontare a tutti i presenti quanto possa essere piacevole donare. Kirsch sa molto bene che i maghi di Internet e dell’alta tecnologia godono della fama di tirchi e vogliono passare al contrattacco. La prima generazione arricchitasi qui nella Silicon Valley, ossia persone come il fondatore della Intel Gordon Moore e David Packard della Hewlett-Pakard, potrebbero essere un ottimo esempio per i nuovi filantropi dell’hi-tech. Ma la nuova generazione nicchia.
Secondo uno studio pubblicato nel 1998 dalla Community Foundation Silicon Valley, tra coloro che nella Valley guadagnano 100 mila dollari all’anno o più, un terzo dona meno di 1000 dollari all’anno. E un’altra ricerca condotta dall’Università di Stanford prova che, tra il 1994 e il 1997, le compagnie della Silicon Valley hanno preferito donare prodotti e servizi piuttosto che denaro. «Ci siamo concentrati troppo sulla creazione di ricchezza e troppo poco sulla filantropia», spiega Kirsch.
E Sandy Lerner, cofondatrice di Cisco e direttore generale della Urban Decay, aggiunge: «è imbarazzante vedere quanto poco doni chi vive e lavora nella Silicon Valley».
Bisogna ammettere, comunque, che anche quando i milionari della Valley donano generosamente, la stampa ne dà conto solo se con il denaro vengono finanziate eccentriche passioni di questi paperon de paperoni: Lerner, per esempio, attraverso la sua Fondazione ha sostenuto il programma Seti per la ricerca di forme di vita extraterrestri.
L’appello che Kirsch rivolge agli imprenditori riuniti sul prato, invece, è molto più pratico: «Il punto è questo, non ci sono vantaggi fiscali a donare quando si è già morti e sepolti, perché dunque non farlo adesso?». Inoltre, aggiunge, «la filantropia può dare i suoi vantaggi se ce la si gioca bene, basta guardare alla borsa: puoi regalare delle azioni ma anche metterle in una fondazione».
Kirsch fa quindi un elenco delle cause e progetti che preferisce finanziare. Gli piacciono gruppi ambiziosi, gli piace che i suoi soldi servano davvero a fare la differenza e crede che l’altruismo debba sempre essere bilanciato da buone idee di business. Ma, soprattutto, gli piace essere stimolato dai progetti che finanzia: dona ad un progetto spaziale dell’Università dell’Arizona che studia asteroidi in rotta verso la terra. «Un’assicurazione vantaggiosa», spiega ridendo, «pago molto di più per assicurare la mia machina».
Demograficamente, questo gruppo di imprenditori riuniti sul prato è molto giovane. La maggior parte è sulla trentina e, dunque, nella posizione di poter donare ancora per molti anni. E tutti sembrano convinti dal discorso di Kirsch: alla fine della riunione il suo gruppo ha trovato 10 nuovi partner e 125 mila dollari.
Come Kirsch, però, la nuova stirpe di filantropi hi-tech vuole reinventare l’arte della generosità. Sono tutti convinti che dare semplicemente via dei soldi sia troppo passivo e poco coinvolgente. E allora? Vogliono affidarsi a consulenti esperti, scoprire e supportare imprenditori sociali pronti a rischiare e, soprattutto, a dare una bella scossa al mondo del non profit. Insomma, creare un nuovo modo di fare carità e anche di chiamarla: venture philantrophy.
Gib Meyers, 57 anni, è il capo della Mayfield Fund. Una famosa venture capital , ma da quando l’anno scorso ha cominciato a lavorare per la Fondazione degli imprenditori della Silicon Valley, si è conquistato la fama di uno dei pionieri della nuova ondata di venture philantropy. Per come la intende Meyers, filantropia significa impegnarsi nello sviluppo tecnologico, guadagnare del denaro e investirlo per sostenere imprenditori non profit.
Lui e i suoi soci della Fondazione degli Imprenditori (compagnie come la Ramp Networks e la Guy Kakwasaki’s) stanno elaborando nuovi modi di misurare l’efficienza e l’effettività delle loro donazioni. E la Fondazione cerca anche di coinvolgere i suoi membri in attività come la pittura di appartamenti a poco prezzo e il tutoraggio di studenti. «Attività», spiega Meyers, «che piacciono ai giovani filantropi della Valley molto più di intestare un assegno all’esercito della salvezza». Molto importanti per la venture philantropy sono gli strumenti finanziari utilizzati, gli stessi che hanno permesso ai giovani donatori di costruirsi un patrimonio nel mondo dell’hi-tech: soprattutto le azioni. Armato di una semplice presentazione fatta in Power Point, Myers ha ottenuto circa 100 mila dollari in azioni da 36 diverse aziende. E triplicato il loro valore in poco tempo.
Proprio come stanno facendo in tutta l’America piccole società che lavorano con Internet. Nel 1998, quando eBay si stava preparando a diventare un grande provider, Pierre Omidyar e Jeff Skoll, rispettivamente vice presidente e responsabile del planning strategico della compagnia, decisero di mettere da parte 107.250 azioni per creare la Fondazione eBay. «Gli investitori non erano molto d’accordo con l’idea», spiega Skoll, «ma noi eravamo assolutamente decisi a realizzarla».
L’inverno scorso la Fondazione eBay ha iniziato a fare investimenti con il suo budget di partenza che ha rapidamente raggiunto quota 30 milioni di dollari. Uno dei primi progetti sostenuti con questo denaro è stato il College Kids, un gruppo che aiuta bambini di famiglie poco abbienti ad ottenere un’educazione superiore adeguata.
Altrove, diversi energici venture filantropi stanno smuovendo il non profit. A Seattle un gruppo di giovani imprenditori guidati da Paul Brainerd, il fondatore di Aldus, ha dato vita alla Social Venture Partners. Una non profit che oggi conta 177 partner, per la maggior parte impiegati Microsoft, che ogni anno versano circa 5 mila dollari a testa in un fondo. Il comitato dei membri decide su che tipo di iniziativa investire e l’intero gruppo segue il progetto dall’inizio alla fine: dopo aver negoziato il tipo di prestito, aiutano le agenzie non profit a entrare in rete e offrono consigli sulle strategie di marketing e business da adottare. La loro filosofia? «Non abbiamo paura di assumerci dei rischi», spiega Brainerd, «vogliamo creare il più grande impatto possibile con il nostro denaro. Per riuscirci usiamo il potere del nostro cervello e non solo quello del libretto d’assegni».
Il manifesto fondativo di questo tipo di filantropia è un articolo pubblicato nel 1997 sull’Harvard Business Review: “Virtuous Capital: what Foundations can learn from venture capitalists”. Scritto da Christine Letts, una professoressa della scuola di studi governativi di Harvard, che cominciò a sviscerare il problema tra il 1995 e il 1996 durante una serie di seminari destinati ai fundraiser americani che si interrogavano su perché fosse così difficile costruire delle forti società non profit. Durante i seminari Letts cominciò a riflettere sul diverso modo con cui imprese profit e non profit si sviluppano, e scoprì che molte delle strategie di business utilizzate da imprenditori che fanno investimenti ad alto rischio (venture capitalists), come aiutare il management delle società finanziarie a stabilire precisi obiettivi e risultati d’impresa, avrebbero potuto essere utilizzate sia dalle fondazioni (che investono i soldi), che dalle associazioni non profit che li ricevono.
Letts si accorse, per esempio, che nei cinque Stati americani con le fondazioni più attive, solo il 5.2 di tutti i finanziamenti erano concessi per più di un anno. Costringendo le associazioni non profit a chiedere continuamente del denaro. Le società di venture capitalist, invece, continuavano a finanziare i progetti scelti per almeno cinque anni e a volte anche di più. «È chiaro che fondazioni e società di venture capital devono affrontare sfide molto simili», recita l’articolo di Letts, «raccogliere il denaro, scegliere giovani organizzazioni che sappiano mettere in piedi buone idee e rendere conto alle persone di cui stanno investendo i soldi». L’articolo, insomma, dimostrava che a differenza delle venture capital pronte a finanziare progetti ad alto rischio, le fondazioni tradizionali erano meno propense a mettersi in gioco. E dunque ad avere successo. L’unica cosa che Letts non aveva previsto era l’effetto che il suo articolo avrebbe avuto su i giovani milionari della Silicon Valley esperti di alta tecnologia, desiderosi di cambiare e ostili a qualunque forma di burocrazia.
«Ho iniziato a lavorare perché non penso che la filantropia tradizionale funzioni bene», spiega Vanessa Kirsch, fondatrice di New Profit. Un gruppo di venture philantropy di Boston che gestisce circa 4 milioni di dollari con l’aiuto dell’alta tecnologia. Dato il suo successo, questo gruppo ha abbondato il suo primo ufficio di una stanza nel palazzo della Croce Rossa di Boston per occupare il loft messogli a disposizione dalla Monitor Company.
«La filantropia tradizionale e la concessione di finanziamenti non si basano affatto sui buoni risultati ottenuti», spiega Kirsch, che lavorando in una piccola charity da lei fondata in gioventù a Washington scopre quanto sia difficile ottenere soldi per iniziative che funzionano bene. «La mentalità delle fondazioni tradizionali», spiega, «è questa: una povera organizzazione non sta funzionando bene? E allora diamole un po’ più di soldi. Ma questo è un modo di pensare che non funziona più».
«La filantropia fatta col libretto d’assegni», le fa eco Sandy Lerner, cofondatrice di Cisco, «non serve più. Il problema con le associazioni non profit tradizionali è che, dopo un po’, si trasformano in grandi compagnie con enormi spese. Donare a una charity grossa come il World Wildlife Fund, o le agenzie umanitarie dell’Onu, è un completo spreco di denaro: la maggior parte del finanziamento va a coprire spese che nulla hanno a che vedere con i progetti messi in campo. Noi invece cerchiamo piccoli gruppi, con poche spese generali e la capacità di guardare al non profit con una prospettiva diversa. Capaci di rischiare». Per selezionare queste persone, la maggior parte dei nuovi giovani filantropi oggi utilizza tecniche mutuate dal mercato. A San Francisco, il Roberts Enterprise Development Fund, creato da quel George Roberts che è anche il fondatore di un impero come la società di investimenti Kohlberg Kravis Roberts, misura le potenzialità di un investimento sociale con gli stessi criteri che usa per fare affari. Qualche esempio? Ha recentemente assunto un consulente della JP Morgan per misurare i rischi e i possibili ritorni sociali di un investimento su Juma Venture. Una piccola società che dà lavoro part time a 71 giovani ragazzi provenienti da un quartiere con un alto tasso di disoccupazione, di cui JP Morgan e il Roberts Fund sviscerano ogni aspetto: misurando quanti ragazzi abbandonano il progetto prima di aver terminato il loro programma di training, quanti eventualmente trovano un altro lavoro dopo questa esperienza e, soprattutto, il valore dei servizi che questa piccola charity offre allo Stato e alla comunità.
Ma non tutto il mondo della filantropia americana è entusiasta di questo nuovo trend. I filantropi della vecchia guardia guardano a questi giovani arricchitisi con l’alta tecnologia con un po’ di sospetto. «Qualcuno pensa che per risolvere i problemi sociali basta applicarvi le ultime tecniche economiche», spiega Bruce Sievers. Che come direttore generale dell’Elise Haas Fund di San Francisco gestisce un budget di 225 milioni di dollari depositati dai padroni della Levi Strauss e, nel 1997, ha replicato al manifesto della venture philantropy scritto da Letts con un contromanifesto. «Abbiamo problemi sociali in cui abbiamo investito milioni di dollari. Ma sono ancora lì, e sinceramente innervosisce vedere questi giovani ragazzi che pensano di poter risolvere tutto con qualche chip o circuito senza essercisi mai immersi. Purtroppo non è così semplice, perché le persone non sono dei numeri e non sempre reagiscono come ci si aspetta. Quel che mi lascia più perplesso, comunque, è il misurare con criteri di mercato gli sforzi di una organizzazione non profit».
E molti filantropi provenienti dal mondo dell’hi-tech condividono le sue preoccupazioni. Harry Saal, fondatore della Network General, sottolinea che, per esempio, è veramente difficile stabilire se un museo contribuisce al benessere sociale di una comunità. Anche Peter Hero, presidente della Community Foundation Silicon Valley e motore di tutte le attività filantropiche della Valley, ha qualche dubbio su questo nuovo modo di intendere il donare: «Mi chiedo se questi giovani avranno la costanza e la pazienza di credere nel non profit quando passano i momenti di euforia. Tollereranno la lentezza con cui in questo campo si prendono le decisioni e le dure realtà sociali con cui si viene confrontati? Non rimarranno delusi da un sistema più democratico che orientato al risultato?».
traduzione di Carlotta Jesi
Una scossa necessaria
In America la filantropia non è un “di più”, ma un fattore essenziale della struttura socioeconomica, una forma di parziale socializzazione dei profitti. Mentre in Italia il fisco è restio ad ammettere vantaggi fiscali seri perché ragiona sui suoi vincoli di gettito a parità di spesa pubblica, negli Usa la filantropia è sostitutiva della spesa pubblica e poiché è per “quasi” definizione più efficiente della gestione pubblica il sistema ne ha un guadagno netto. Ciò detto non è vero che la filantropia tradizionale americana sia stata solo di contributi in denaro. L’America è piena di atti di filantropia per scopi specifici, accompagnati da competenze organizzative e imprenditoriali. La maggior parte della sostanza del grande tycoon Andrew Carnegie fu destinata a fornire tutti i centri degli Stati Uniti di biblioteche pubbliche, e gli esempi potrebbero essere numerosi. Peraltro che il mondo delle grandi fondazioni tradizionali sia un po’ invecchiato, un po’ burocratizzato e un po’ costoso è assai probabile. Sicché un rinnovato approccio professionale che porti anche in questo mondo, scenari, metodologie, volontà che si sono sperimentati con successo nel mondo del “Venture Capital” non può che rappresentare una scossa positiva. È il “Venture Capital” che ha plasmato l’America di questa fine secolo, e che l’ha rimessa in testa nelle nuove tecnologie. Perché questi metodi e questi approcci non dovrebbero essere utili al mondo della filantropia? Insomma, senza pensare che il nuovo approccio sostituisca totalmente il grande e diversificato mondo della filantropia americana ma solo lo integri e lo stimoli, non vedo altro che aspetti positivi nelle nuove tendenze. Esse, peraltro, non sono, così nuove come pretendono di essere. La grande filantropia americana ha sempre unito capitale, cervello e competenze. Il punto, dunque, è rinnovare e rilanciare la vecchia formula nell’ambito delle nuove tecnologie, modalità di lavoro, formule organizzative. Un passaggio più che auspicabile, necessario.
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