Siccità, calo dei rendimenti agricoli, debole sostegno ai piccoli agricoltori, conflitti e instabilità, volatilità dei prezzi e conquista delle terre arabili. In Africa le origini di una crisi umanitaria e alimentare sono spesso molteplici. Ma quelle apparse lo scorso anno nel Corno d’Africa hanno assunto proporzioni mai viste sul continente africano negli ultimi 25 anni. Dallo stato di emergenza proclamato nel luglio 2011 in due regioni situate a sud della Somalia, la crisi è dilagata in quattro Paesi mettendo a rischio 13,3 milioni di persone che oggi non potrebbero sopravvivere senza assistenza umanitaria: 180mila a Gibuti; 4,6 milioni in Etiopia; altri 3,8 milioni in Kenya e oltre 4 milioni in Somalia. Nel solo periodo aprile-agosto 2011, il governo britannico ha stimato tra 50 e 100mila decessi, di cui più della metà bambini sotto i 5 anni. La siccità non sceglie le sue vittime a caso. Nel Corno d’Africa ha colpito essenzialmente le popolazioni pastorali, il cui bestiame è stato in gran parte decimato dalla scomparsa della vegetazione. In Kenya, sono morti 8 milioni di capi in meno di un anno. In Etiopia siamo giunti al nono periodo di siccità dal 1997 contro i cinque recensiti nei trent’anni precedenti.
Contraddizioni somale
Nessuno però riesce a battere la Somalia, dove l’ultimo rapporto dell’Ocha, l’Ufficio di coordinamento degli affari umanitari delle Nazioni Unite, pubblicato il 27 gennaio scorso, sembra un bollettino di guerra. Perché oltre alla siccità, la guerra è l’altro grande male che da decenni affligge la regione. «L’omicidio di due volontari di Medici senza frontiere nel dicembre scorso ha costretto l’organizzazione umanitaria a ridurre del 50% le sue attività nel distretto di Hogan, a Mogadiscio, dove 200mila sfollati somali beneficiavano degli aiuti portati da Msf», ricorda Ocha. «Una settimana prima, il Comitato internazionale della Croce Rossa aveva deciso di sospendere le distribuzioni di cibo e semi a oltre un milione di persone». Nella capitale somala scontri continui oppongono i miliziani del gruppo estremista islamico Al-Shabaab e i 10mila soldati dell’Amisom, la missione dell’Unione africana in Somalia, mentre a Sud gli Shabaab devono vedersela da un lato con l’esercito keniota, entrato in territorio somalo nell’ottobre scorso per rispondere agli attentati e ai sequestri perpetrati dagli estremisti islamici a Nairobi e Lamu, e dall’altro con i soldati etiopi, tornati a infiltrare la frontiera somala il 30 gennaio, sempre per sconfiggere gli Shabaab.
Ma come ogni crisi umanitaria, quella del Corno d’Africa non è mai al riparo da paradossi. Nonostante le truppe africane dell’Amisom siano a riuscite a cacciare le milizie islamiste da Mogadiscio, nella capitale la carestia fa sentire ancora pesantemente i suoi effetti. «A differenza del Sud, qui la macchina umanitaria deve fare i conti con una popolazione in continuo spostamento, quindi difficilmente accessibile», rivela a Vita una responsabile di Ocha che non vuole essere citata. «Al contrario, nelle zone meridionali della Somalia controllate dagli islamisti la situazione sta migliorando. Eppure in queste aree le ong e le agenzie umanitarie delle Nazioni Unite sono state bandite». Questo perché «per principio gli Shabaab sono contrari alla distribuzione diretta di cibo: temono un effetto di dipendenza da parte delle popolazioni locali nei confronti della macchina umanitaria internazionale. Sono invece molto meno reticenti alle azioni di sostegno all’agricoltura e di rafforzamento dei mezzi di sussistenza». Nella Somalia meridionale, l’Onu decide di ricorrere ai trasferimenti di contante attraverso il sistema “Hawala” utilizzato dalla diaspora somala per fornire denaro ai beneficiari, e ai food voucher, usati in specifici negozi per acquistare cibo e incoraggiare i commercianti locali a vendere beni alimentari a prezzi abbordabili. Questo programma di assistenza umanitaria ha permesso all’ong italiana Coopi di facilitare l’accesso all’acqua potabile e all’Unicef di aiutare 30mila tra famiglie e bambini.
Un pericoloso ritardo
Progressi simili sono stati registrati in Kenya, dove i programmi di trasferimento di denaro hanno alleviato le sofferenze di 379mila persone, e in Etiopia, Paese che a differenza della Somalia gode di un’amministrazione e un governo molto ben organizzati che, nonostante il numero impressionante di persone precipitate nell’insicurezza alimentare, stanno riuscendo a limitare i danni grazie a programmi di prevenzione e ai forti investimenti effettuati nel settore agricolo. Ma c’è poco da stare allegri. Perché se il futuro del Corno d’Africa si gioca sul filo del rasoio (basta un altro raccolto andato a buca per annientare mesi di sforzi), il passato evoca soltanto rabbia e rimpianti.
Un pericoloso ritardo è il titolo di un rapporto in cui Oxfam e Save the Children denunciano il ritardo della comunità internazionale nel rispondere ai primi segnali di crisi alimentare. Secondo il rapporto, le agenzie umanitarie e i governi hanno indugiato per sei lunghi mesi prima di fornire aiuti su larga scala. Si sono attese le prove inequivocabili di una catastrofe umanitaria invece di agire per prevenirla. I sistemi più avanzati di allerta avevano preannunciato la probabile emergenza in Africa orientale per agosto 2010. Ma una risposta vera e propria c’è stata solo a luglio 2011, quando i tassi di malnutrizione in alcune regioni avevano superato di gran lunga la soglia di emergenza, e i media avevano cominciato a interessarsi della crisi. Trasportare 5 litri di acqua al giorno (quantità minima vitale pro capite) per 5 mesi ? nel tentativo estremo di salvare la vita a 80mila persone in Etiopia ? costa oggi più di 3 milioni di dollari, mentre nella prime fasi della siccità, sarebbero stati sufficienti 900mila dollari per predisporre fonti di approvvigionamento idrico nella stessa area. «Il mondo sa che c’è un’emergenza ma la ignora fino a quando non si vedono in tv le immagini di bambini disperati e malnutriti», denuncia Justin Forsyth, direttore generale di Save the Children.
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