Welfare
Siamo una comunità. Anche se non sembra
A Cassino il centro creato da Exodus è ormai diventato uno spazio al servizio di tutta la città e non solo adibito al recupero di chi soffre da dipendenza da sostenze
La mamma si è dimenticata di dare a Federico, 7 anni, la felpa e fuori fa freschino. Così, Serena, 31 anni, gli si avvicina, si toglie la sua e gliela porge. Insieme ad un sorriso. Sono le otto del mattino e siamo a Cassino (Frosinone), nella comunità di recupero per tossicodipendenti di Exodus. Federico è uno dei circa 300 bambini che quest’anno si sono iscritti al campus estivo all’interno della comunità. Serena, che ha terminato il suo percorso di recupero, è una delle animatrici del campus.
È una storia di integrazione unica, quella che sta avvenendo qui, in questo comune del Lazio, noto per l’abbazia benedettina, fondata nel VI secolo d.C., che domina dall’alto di Montecassino. Una comunità di recupero che si apre all’esterno, alla città che la ospita, e diventa un luogo di incontro e di crescita per tutti.
Campus e visite delle scuole
«La Fondazione Exodus ha 40 centri in tutta Italia», spiega Luigi Maccaro, responsabile della comunità e motore di questo luogo così speciale. «Nel 1990, abbiamo aperto la sede a Cassino, per rispondere al problema della tossicodipendenza. Dopo qualche anno, però, abbiamo capito che non bastava affrontare questa situazione, era necessario prevenirla. Così, su indicazione del nostro fondatore, don Antonio Mazzi, abbiamo iniziato a coinvolgere le scuole e i gruppi giovanili, e a invitarli qui per conoscere più da vicino la nostra esperienza».
Erano gli anni dei morti per overdose e della diffusione dell’Hiv. Le persone da un lato erano spaventate dall’idea di avere una comunità vicino a casa, dall’altra, però, erano anche incuriosite e soprattutto cercavano risposte. «Sempre più consapevoli che non esiste una netta distinzione tra chi non ha problemi e chi soffre di una dipendenza, perché i comportamenti possono avere mille sfuma- ture, abbiamo deciso di aprirci anche alle famiglie» continua Maccaro.
«Abbiamo iniziato ad organizzare corsi di musica, di teatro e di fotografia, ma anche attività sportive come la scuola calcio e corsi di pallavolo e di scherma. Alcune di queste attività sono solo per bambini, ad altre partecipano anche gli adulti, sia quelli che vengono da fuori che gli ospiti della comunità. È nata la fattoria didattica, che ogni anno accoglie circa mille bambini delle scuole del territorio. Nel 2015 è partito il primo campus estivo, che oggi è il più frequentato di Cassino: fra gli animatori ci sono i ragazzi che stanno terminando il percorso di recupero. E ancora, ospitiamo incontri per adulti e corsi di formazione per insegnanti. La nostra comunità, poi, è anche centro diurno per un gruppo di giovani con disabilità. Qui stiamo imparando che il tempo de- gli esperti è finito, i problemi si risolvono insieme, costruendo relazioni, aiutandosi a vicenda».
«L’innovazione sociale di questo luogo sta nella sua apertura, che permette uno scambio, un’osmosi tra il dentro e il fuori», prosegue Marisa Del Maestro, psicologa e psicoterapeuta. «Basti pensare all’Università della Famiglia, nata quest’anno. Si tratta di un percorso educativo, pedagogico e sociale, aperto sia alle famiglie del territorio che a quelle dei ragazzi ospiti. Ci incontriamo e discutiamo di alcuni temi. Le persone, di ogni età, partecipano numerose e con slancio, perché ritrovano quel senso di comunità che a livello sociale si è perso. I benefici psicologici sono notevoli. I genitori dei ragazzi ospiti non si sentono etichettati perché i loro figli sono tossicodipendenti, ma accolti come persone che stanno affrontando un problema. Mentre le famiglie che arrivano dall’esterno imparano a capire che cosa fare per prevenire situazioni di sofferenza e si sentono unite nella grande responsabilità della genitorialità. Questa comunità è il segno che l’integrazione è una risposta educativa concreta alle fragilità sociali».
Gaetano ha 29 anni ed è entrato a Cassino scontando una pena alternativa al carcere. Dopo aver terminato il percorso di recupero, che dura due anni, oggi vive da solo e ha un contratto di lavoro con Exodus: è il responsabile delle feste di compleanno organizzate in comunità, oltre che del bar e del gruppo di ragazzi dai 10 ai 14 anni che frequentano il campus. «All’inizio stavo qui perché dovevo starci, e invece questo posto, proprio perché è aperto, mi ha salvato la vita» racconta. «È facile stare in una comunità chiusa, perché non hai tentazioni e non sei obbligato a confrontarti con chi potrebbe giudicarti. Qui impari a stare con gli altri e così facendo si abbattono i pregiudizi. Il fatto che i genitori mi affidino i loro bambini durante il campus per me è bellissimo: si fidano di me».
Una tremenda voglia di vivere
Anche Serena ha terminato da poco il suo percorso di recupero e continua a collaborare con la comunità. «All’inizio avevo paura ad affrontare le persone, perché i primi ad avere pregiudizi su di noi, siamo proprio noi stessi» spiega. «Non sopportavo i bambini, perché odiavo la bambina che c’era in me. In realtà i bambini per me sono stati terapeutici: a loro non interessa se sei stata in carcere o se ti sei drogata, ti vogliono bene e basta. Quando i genitori mi dicono che i loro figli hanno passato la sera a parlare delle attività che abbiamo fatto insieme, io sono felice!».
«Capisco che non sono più la tossica, sono semplicemente Serena», conclude la ragazza, «Stando in mezzo alla gente, sei costretta ad uscire dalla bolla che ti sei costruita attorno e a vivere davvero. Perché alla fine, quando ti drogavi, questo facevi: ti chiudevi dentro la tua bolla. E intanto lentamente morivi».
La conferma arriva da Maurizio, nonno di Simone, 8 anni, che frequenta il campus estivo: «Qui i bambini crescono più forti, perché trovano risposte a problemi che potrebbero incontrare un domani e imparano che nella vita si cade ma ci si rialza». Daniele e Daniela, genitori di Alessandro e Gabriele, di 9 e 6 anni, sono dello stesso parere: «Pensiamo che i nostri bambini possano imparare tanto da questi ragazzi che, come di- ce uno slogan di Exodus, hanno davvero una tremenda voglia di vivere».
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