Welfare

Siamo necessari. Lo dimostra la mia storia a rotelle

di Redazione

Piuttosto che lavorare?. Già, i giornalisti hanno questa brutta fama. Tutti sono convinti, a partire dagli editori, che noi non lavoriamo affatto, ma ci divertiamo assai. Forse per questo non ho trovato difficoltà a cominciare questo mestiere, tanti anni fa, quando non esisteva la legge 68, ma solo la 482, ossia il cosiddetto “collocamento obbligatorio”. Ecco perché io, pur di non fallire questo obiettivo che mi ero messo in testa da ragazzo, chiesi alla commissione medica la prima volta che mi aveva convocato per la certificazione del mio livello di invalidità, di fermarsi al 45%. Se avessi superato quella soglia, poco ma sicuro, mai e poi mai avrei trovato posto in redazione (poi, anni dopo, la salute mi impose un aggravamento non desiderato, colpa del respiro, non solo delle ossa fragili).
Ma anche così, disabile a metà, non fu affatto facile. Anni di meritato lavoro da “abusivo” (come si diceva una volta – una volta? – per connotare l’opera meritoria dei collaboratori pagati pochissimo ma utilizzati a tempo pieno), prima di vedermi riconosciuto d’ufficio il periodo di “praticantato”, indispensabile per affrontare l’esame di Stato, a Roma, nel lontano 1984. Ero senza redazione alle spalle, l’avevano chiusa, quella del Resto del Carlino a Padova, sotto i colpi della concorrenza delle nuove testate locali, il Mattino di Padova (Giorgio Mondadori, all’inizio) e L’eco di Padova (Rizzoli). Superai l’esame di slancio, con incoscienza, costringendo la commissione a scendere le scale per esaminarmi agli orali. Poi venni assunto dal Mattino di Padova e il comitato di redazione, per convincere l’amministratore delegato che scuoteva la testa di fronte all’ipotesi di assumere un giornalista in sedia a rotelle (poi diventammo quasi amici), lo convinse così: «Guarda che lui la sedia girevole se la porta da casa, non la devi comprare?». Questa divenne quasi una leggenda metropolitana, ma è una storia che in qualche modo caratterizza l’unicità o quasi della mia avventura professionale di giornalista con disabilità. Pionierismo, sfrontatezza, accettazione dei rischi del mestiere, ma anche molta umanità reciproca.
In redazione per lunghi anni chiedevo espressamente di occuparmi di tutto, tranne che di handicap e dintorni. «È come se chiedeste alle colleghe donne di occuparsi solo di temi femminili» argomentavo sicuro, e infatti mi accontentarono: cronaca nera, bianca, giudiziaria, sport, cultura, spettacoli, provincia, chiusure serali, caposervizio, impaginazione, titolazione? Tutto. E poi free lance per scelta, stanco di stare con le mie rotelle nel chiuso di una redazione di quotidiano. La scelta di venire a Milano, luogo “ideale” (sic!) per chi vuole occuparsi di informazione. La direzione di un portale, poi anni di lavoro in un’agenzia multimediale, prima di scegliere la libertà, una pensione quanto mai attiva, grazie a Vita. Nel frattempo mi sono appassionato alle tematiche della disabilità, anche perché vedevo attorno a me lo scempio delle parole e dei contenuti, la superficialità, il menefreghismo, per temi che riguardano milioni di cittadini, spesso reclusi e comunque non in grado di difendersi attraverso i media.
Sono stato fortunato, ho vissuto di slancio più di trent’anni di mestiere (ho iniziato nel 1978) senza pensare quasi mai a una mia “diversità”. E attorno a me i colleghi, i direttori, gli editori non credo abbiano avvertito differenze sostanziali di rendimento o di approccio professionale. Ora farei più fatica a farmi assumere: paradossalmente proprio perché una legge mi tutela di più. E le aziende, adesso, vedono la disabilità come un rischio, non come una grande opportunità per ripensare e migliorare l’organizzazione del lavoro, la qualità degli ambienti, le mansioni e le competenze. È sulla cultura che bisogna lavorare, rimuovendo paure e ignoranza. Ma indietro non si torna, e d’altronde “piuttosto che lavorare”?

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Cara lettrice, caro lettore: il 25 e 26 ottobre alla Fabbrica del Vapore di Milano, VITA festeggerà i suoi primi 30 anni con il titolo “E noi come vivremo?”. Un evento aperto a tutti, non per celebrare l’anniversario, ma per tracciare insieme a voi e ai tanti amici che parteciperanno nuovi futuri possibili.