Lo ammetto. Sull’ossimoro mi è quasi caduta la lacrimuccia. E’ successo qualche giorno fa mentre leggevo l’articolo di Federico Rampini su La Repubblica. Ha utilizzato un concetto più che in voga (anzi, diciamolo, ormai un pò agèe) tra gli imprenditori sociali nostrani per descrivere il profilo di quello statunitense: un ossimoro, appunto, “che unisce l’efficienza del management d’impresa e l’impegno per la lotta alle diseguaglianze, l’aiuto ai più deboli, il miglioramento dei servizi pubblici”. La prima reazione, condivisa con altri “del giro”, è stata nel segno della rivendicazione: come sempre si guarda al nuovo che viene dall’estero e non si considera quanto si sta facendo, da anni, nel nostro paese. Ricordo più o meno le stesse reazioni di fronte al social business di Yunus, alla social innovation di qualche business school, all’imprenditorialità sociale di The Hub e addirittura all’imprenditore pubblico di Elinor Ostrom, premio Nobel dell’economia 2009. Non è la prima volta che capita e capiterà sempre più spesso. Perché questo ossimoro è oggetto di interesse – e di lavoro – di soggetti che provengono da contesti culturali, prima ancora che organizzativi, diversi da quello che per primo ha cercato di smussarne gli angoli (almeno in Italia). E’ forse per questa ragione che, agendo sempre di primo acchito, gli imprenditori sociali di prima generazione, quelli di orgine non profit per capirci, cercano di marcare gli elementi distintivi tra le diverse prospettive, piantando, spesso a notevole profondità, i famosi “paletti”. Credo sia una reazione almeno in parte comprensibile: onestamente fa specie che ricercatori, addetti ai lavori, giornalisti non considerino esperienze prossime e relativamente più consolidate rispetto ai fenomeni di cui si occupano. Quasi si volesse ribadire il nuovo a tutti i costi, togliendo di mezzo tutto ciò che c’è stato nel passato e che potrebbe inficiare la nuova prospettiva. E’ vero che qualsiasi processo di instituition building richiede di enfatizzare i caratteri distintivi del soggetto emergente sottolineandone le discontinuità rispetto al passato, ma si rischia di esagerare con argomentazioni solo in parte condivisibili. All’opposto barricarsi nella propria nicchia è una reazione antistorica, non in linea con un evoluzione economica e sociale certamente più favorevole rispetto all’epoca in cui sono nate le esperienze pioniere, pur considerando tutti i rischi di opportunismo, inversione dei fini, isomorfismo nei quali si può incorrere aprendosi a nuovi modelli e approcci. Sarebbe davvero un clamoroso autogol che segnerebbe la vittora di uno dei principali disvalori in ambito non profit: l’autoreferenzialità. Nuovismo e chiusura sono quindi rischi da evitare. Ma come? Attraverso la conoscenza e la collaborazione reciproca. Ma a partire da quali basi? L’apprendimento dall’esperienza. Credo che la fase storica prossima ventura potrà essere davvero stimolante e ricca di opportunità nella misura in cui gli attori coinvolti sapranno capitalizzare meglio gli elementi di identità e di competenza che li contraddistinguono, mettendoli in gioco in un contesto di dialogo e di interazione decisamente più ricco e articolato. Qualche esempio: se è vero che l’imprenditore sociale fa propria la strumentazione del management d’impresa per perseguire finalità d’interesse collettivo è altrettanto evidente che questa stessa strumentazione non può essere trasferita tout court, ma richiede modalità, spesso consistenti, di adattamento rispetto agli obiettivi. Imprenditori sociali vecchi e nuovi hanno accumulato, spesso sulla loro pelle, molta esperienza nell’utilizzo di strumenti per migliorare la qualità dei beni prodotti e per coinvolgere i beneficiari delle attività e altri stakeholders. Sarebbe quindi un terreno di scambio utile anche per rimettere ordine nella “cassetta degli attrezzi” di molte organizzazioni che a volte è stata riempita in modo confuso. Altro tema, più spinoso, riguarda la strutturazione dei processi produttivi e di governo. L’articolo di Rampini è emblematico: l’imprenditore sociale made in Usa è una persona che si muove all’interno di diverse organizzazioni – pubbliche e private, for e non profit – implementando i propri progetti. Nel contesto italiano l’imprenditore sociale è invece un soggetto collettivo che si costituisce all’interno di un contesto organizzativo dotato di caratteristiche e vincoli peculiari rispetto alle imprese tradizionali e agli enti pubblici (caso tipico la cooperativa sociale). Anche solo limitarsi a mettere in fila i pro e i contro dei diversi assetti contribuirebbe a far crescere, complessivamente, il movimento dell’imprenditorialità sociale. Facendolo diventare mainstram.
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